mercoledì 23 febbraio 2011

LA CORTE DI CASSAZIONE TORNA AD OCCUPARSI DI ANATOCISMO


La Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi di anatocismo, la pratica bancaria (già affrontata nelle pagine di questo blog) con la quale gli istituti bancari, indebitamente, operavano (in alcuni casi operano ancora) la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi. In termini più semplici, ogni tre mesi le banche imputavano al capitale gli interessi passivi addebitabili al cliente e, da tale momento, gli interessi producevano a loro volta interessi: questo meccanismo provocava inevitabilemente un crescita esponenziale del debito del correntista. E ciò avveniva in contrasto con l'art. 1283 c.c.
Con la
sentenza n. 24418/2010 la Suprema Corte ha affrontato il tema della prescrizione del diritto ad ottenere la restituzione di quanto indebitamente versato alle banche: prescrizione decennale che il cliente riteneva far decorrere dalla data di cessazione del rapporto mentre la banca riteneva far decorrere da ciascuna capitalizzazione trimestrale dei debiti passivi.
Ebbene, la Corte ha stabilito che l’azione di ripetizione, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici, maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta a prescrizione decennale decorrente, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. Dichiarata la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale, contemplata nel contratto di conto corrente bancario, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c., gli interessi a debito del correntista devono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna.

giovedì 17 febbraio 2011

LA COSTITUZIONE ITALIANA: LA PIU' AFFASCINANTE DELLE LETTURE - ARTICOLO 11


Costituzione della Repubblica italiana, articolo 11: "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo".
Questo articolo deve essere letto alla luce degli avvenimenti bellici accaduti negli anni immediatamente precedenti al 1948. L'Italia usciva non solo da un ventennio fascista che l'aveva portata a combattere guerre pseudocoloniali e assolutamente ingiustificabili come quelle in Albania, Libia ed Etiopia, ma aveva altresì partecipato a fianco della Germania alla guerra che maggiormente ha infangato l'onore del nostro paese.
Le guerre coloniali costituirono un evidente offesa alla libertà degli altri popoli: in questo senso l'articolo 11 esprime una condanna per le vergognose azioni passate ed il fermo proposito di non ripeterle. Lo spirito di emulazione dell'Antico Impero Romano e delle contemporanee potenze internazionali (quali Inghilterra, Francia e Spagna), oltre a pretestuosi tentativi di ovviare alla crisi economica di inizio secolo, avevano spinto il regime fascista ad invadere arbitrariamente altri Stati. E (motivo di ulteriore vergogna) le suddette guerre recarono enormi perdite umane sia tra gli invasi che tra gli invasori.
E dopo il colonialismo fascista e dopo la vergogna delle leggi razziali, l'ultimo affronto alla dignità italiana avvenne con la decisione di Mussolini di schierarsi a fianco del nazismo in una guerra orribile. L'onore dell'Italia fu parzialmente riscattato con il sangue dei partigiani e la svolta dell'8 settembre allorquando, cacciato il dittatore, l'Italia firmò l'armistizio con gli Alleati e concluse la guerra da nemica dell'Asse tedesco.
Questi avvenimenti che, come detto, lasciano ancora oggi dolorose ferite sulla pelle della nostra nazione, a maggior ragione, a tre soli anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, indussero il Costituente ad affermare che mai più l'Italia si sarebbe servita della guerra per invadere il suolo di altri Stati sovrani, offondendone la libertà e la dignità. Per tale ragione, dunque, l'articolo in questione utilizza un termine forte quale è il ripudio in riferimento allo strumento bellico.
Non solo. L'articolo 11 della Costituzione rifiuta la guerra non solo quando spinta da mire espansionistiche ma anche quando appaia come strumento di risoluzione delle controversie (magari anche sorte per colpe imputabili ad altre nazioni: la guerra, sembra dire l'articolo 11, è uno strumento da evitare in qualsiasi situazione.
E la Costituzione non a caso prosegue affermando che l'Italia consente, in condizioni di parità, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuti la pace e la giustizia fra le nazioni: infatti, escludendo la guerra fra i possibili strumenti di risoluzione delle controversie, la Costituzione suggerisce il metodo migliore per assicurare la pace tra i popoli. Questo strumento è il ricorso ai trattati internazionali.
Con la sottoscrizione di trattati internazionali, l'Italia, rinunciando ad una parte della propria sovranità, persegue la ricerca di un ordinamento sovranazionale che assicuri una pacifica convivenza. In questa ottica vanno viste le adesioni (in qualche caso la creazione da protagonista) ai trattati Onu e della Comunità Europea ratificate dall'Italia negli anni immediatamente successivi all'entrata in vigore della Costituzione.
L'articolo 11, infatti, afferma che l'Italia promuove lo sviluppo delle organizzazioni internazionali volte al mantenimento (o alla ricerca) della pace mondiale. Si ricordi che in quest'ottica la nostra nazione è stata firmataria del trattato che ha portato alla creazione di una embrionale Comunità Europea, la quale, nata per interessi pressochè unicamente economici, ha iniziato un percorso (tuttora non giunto a compimento) che l'ha portata a denominarsi Unione Europea e ad abbracciare trenta Stati, conferendo al loro insieme una unione politica.

mercoledì 16 febbraio 2011

RESPONSABILITA' MEDICA: PRINCIPI FISSATI DALLA CORTE DI CASSAZIONE


La Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi della responsabilità medica con la sentenza 29 novembre 2010 - 1 febbraio 2011, n. 2334: il caso che ci occupa risulta molto delicato perchè riguarda quello di una bambina venuta alla luce dopo un parto cesareo che le ha arrecato gravi danni fisici, i quali ne hanno determinato la morte alla tenera età di nove anni. Di tali danni sono stati ritenuti responsabili solidalmente il medico che ha avuto in cura la partoriente e la struttura sanitaria.
Ebbene, la Corte ha avuto modo di ribadire i principi espressi dalla costante giurisprudenza, secondo i quali "la responsabilità del medico in ordine al danno subito dal paziente presuppone la violazione dei doveri inerenti allo svolgimento della professione, tra cui il dovere di diligenza da valutarsi in riferimento alla natura della specifica attività esercitata; tale diligenza non è quella del buon padre di famiglia ma quella del debitore qualificato ai sensi dell'art. 1176, secondo comma cod.civ. che comporta il rispetto degli accorgimenti e delle regole tecniche obbiettivamente connesse all'esercizio della professione e ricomprende pertanto anche la perizia; la limitazione di responsabilità alle ipotesi di dolo e colpa grave di cui all'art. 2236, secondo comma cod.civ. non ricorre con riferimento ai danni causati per negligenza o imperizia ma soltanto per i casi implicanti risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà che trascendono la preparazione media o non ancora sufficientemente studiati dalla scienza medica; quanto all'onere probatorio, spetta al medico provare che il caso era di particolare difficoltà e al paziente quali siano state le modalità di esecuzione inidonee ovvero a questi spetta provare che l'intervento era di facile esecuzione e al medico che l'insuccesso non è dipeso da suo difetto di diligenza".
Quanto alla responsabilità della struttura sanitaria, la Corte ha ribadito che "in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante".

martedì 15 febbraio 2011

LA CORTE DI CASSAZIONE AUSPICA UN AMPLIAMENTO DEI CASI IN CUI E' CONSENTITA L'ADOZIONE MONOGENITORIALE


Una premessa doverosa: io ritengo che la filiazione più che un diritto costituisca un dovere che si manifesta nell'adempimento (ciascuno secondo le proprie capacità ma con il massimo impegno) di tutte quelle attività che servono per far maturare la nuova generazione. Non ho mai amato le pratiche tese alla "fecondazione a ogni costo", ho sempre cercato di spiegare a chi vuole ascoltarmi che avere un figlio (naturale o adottivo) non deve essere una pretesa ma un dono che non ci è dato sapere se riceveremo o no. E ho sempre ritenuto che l'unica maniera vera, autentica, completa di essere genitori (naturali o adottivi) sia quella che si sviluppa attraverso il matrimonio (civile o religioso che sia); e ho, altrettanto, sempre sostenuto che il matrimonio è solo quello che viene contratto tra un uomo e una donna. Con questo non voglio assolutamente dire che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato nelle relazioni omosessuali: trovo, al contrario, che esse debbano avere la medesima dignità morale e sociale delle relazioni eterosessuali. Dico che il matrimonio è un istituto, nato dalla cultura (pressochè universale) umana, che per sua stessa natura vede come contraenti un uomo e una donna: è come dire che il contratto di locazione necessita di un locatore e di un locatario, se manca uno dei due o se uno dei due soggetti è sostituito, sarà un contratto diverso ma non una locazione.
Aggiungo, per riavvininarmi al tema centrale che voglio portare all'attenzione, che sono convinto che in molte parti del mondo (probabilmente ciò vale anche per alcune situazioni che si verificano nel nostro paese) sarebbe meglio per una bambino avere un genitore solo ma amorevole piuttosto che nessuno oppure piuttosto che due genitori che non adempiono ai propri doveri. Dunque, in linea di principio, in alcune situazioni particolarmente urgenti e difficili, io stesso sarei d'accordo per l'adozione monogenitoriale. Ma, a parer mio, deve sempre essere preferibile l'adozione da parte di due genitori: perchè un bambino ha bisogno dell'amore di un papà e di una mamma, i quali sanno amare e donare al figlio cose totalmente diverse e tutte preziose per il completo sviluppo di una persona.
Detto ciò, ritengo importante pubblicare ciò che la Cassazione ha voluto affermare, lanciando un monito al legislatore affinchè prenda in considerazione la possibilità di consentire, nel concorso di particolari circostanze, l'adozione legittimante anche ai single. Tale invito è della prima sezione civile della Suprema corte che, con la
sentenza 3572/2011, pur negando efficacia in Italia a un provvedimento di adozione pronunciato negli Stati Uniti in favore di una donna sola, ha affermato che "il legislatore nazionale ben potrebbe provvedere, nel concorso di particolari circostanze, ad un ampliamento dell'ambito di ammissibilità dell'adozione di minore da parte di una singola persona anche con gli effetti dell'adozione legittimante".
La Corte sembra riferirsi a questo: l'adozione deve svolgersi preferibilmente nell'ambito di una famiglia fondata sul matrimonio (non dimentichiamo ciò che afferma l'art. 29 della Costituzione) ma in alcuni casi particolari, di  necessità e urgenza non comune (aggiungo io), il legislatore dovrebbe consentire a una persona non sposata di prendersi cura di un bambino bisognoso. A mio parere quello che la Corte dice dovrebbe essere condiviso da tutte le persone che hanno a cuore gli interessi dei bambini disagiati italiani e del resto del mondo. Senza polemiche sterili e preconcetti fini a se stessi.

lunedì 14 febbraio 2011

DOPO LA SEPARAZIONE SOLO IL CONIUGE CHE RIMANE E' OBBLIGATO A VERSARE IL CANONE DI LOCAZIONE


Dopo la separazione di fatto dei coniugi, il locatore può agire in giudizio per chiedere il pagamento dei canoni di affitto dell'abitazione non corrisposti solo al soggetto che continua ad abitare la casa, che rimane l'unico “conduttore”. Verso l'altro coniuge si crea una cessione definitiva del contratto di locazione.
E' la conclusione disposta dalla terza sezione civile della Corte di cassazione con
sentenza n. 1423 del 2011 specificando che in seguito alla separazione personale dei coniugi, per volontà di legge, nel contratto di locazione il coniuge che detiene l'immobile succede all'altro coniuge. Per cui il soggetto che continua ad abitare l'immobile assume tutti i diritti ma anche gli oneri relativi alla locazione.
 

giovedì 10 febbraio 2011

LA COSTITUZIONE ITALIANA: LA PIU' AFFASCINANTE DELLE LETTURE - ARTICOLO 10


Costituzione della Repubblica italiana, articolo 10: "L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici".
Il primo comma dell'articolo 10 dispone che l'ordinamento giuridico italiano (inteso come il complesso del suo apparato normativo, costituito da leggi e regolamenti) debba conformarsi alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La citata disposizione costituzionale si riferisce alle norme consuetudinarie e dispone l'adattamento automatico, rispetto alle stesse, dell'ordinamento giuridico italiano. Le norme pattizie, ancorché generali, contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali, esulano dalla portata normativa del suddetto articolo 10 che si riferisce solo alle norme di origine consuetudinaria.
Il principio fondamentale che sta alla base di questo comma è quello di "aprire" il diritto interno all’ordinamento internazionale, facendo in modo che esso si adatti automaticamente, ossia senza bisogno di un atto legislativo di trasposizione degli obblighi che derivano dal diritto internazionale generale. Ne consegue che un atto legislativo che risulti incompatibile con una regola di diritto internazionale di natura consuetudinaria debba essere dichiarato viziato da illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 10, comma 1.
Il secondo comma dell'articolo 10 riguarda invece la condizione giuridica dello straniero: la Costituzione opera una cosiddetta riserva di legge, riserva, cioè, solo alla legge (norma, dunque, di rango immediatamente inferiore a quelle costituzionali) il compito di regolare la condizione giuridica dello straniero, ossia di delineare i diritti e i doveri in capo allo straniero. Non si dimentichi, tuttavia, quello che si è già avuto modo di dire affrontando l'articolo 2 della Costituzione, laddove si è evidenziato che lo straniero, tanto quanto il cittadino italiano, gode di alcuni diritti inalienabili (si pensi al diritto all'uguaglianza senza distinzione alcuna per ragioni di razza o di religione, al diritto alla vita, al diritto di manifestare il pensiero) spettanti ad ogni uomo: tali diritti sono inviolabili e neppure la legge può limitarli o precluderli.
La Costituzione si dimostra così sensibile al tema dei diritti dell'uomo che al terzo comma dell'articolo 10 dispone che lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, abbia diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Anche qui viene operata una riserva di legge ma l'aspetto che più colpisce è l'attenzione alle libertà democratiche dello straniero. L'aricolo 10, anche a causa della condizione di esule vissuta in prima persona da molti padri costituenti, è stato redatto con l’intenzione di dare diritto d’asilo a chiunque non goda nel proprio Paese delle libertà democratiche garantite dalla nostra Costituzione (si pensi allo straniero che fugga dal proprio paese nel quale risulta impossibile la libera manifestazione del pensiero o lo svolgimento di regolari e democratiche elezioni).
E proprio alla luce della protezione che la nostra Repubblica intende dare allo straniero al quale sia impedito nel proprio paese l'esercizio delle libertà democratiche, il quarto comma dell'articolo 10 stabilisce l'inammissibilità dell'estradizione dello straniero per reati politici (l'estradizione è una forma di cooperazione giudiziaria tra Stati e consiste nella consegna da parte di uno Stato di un individuo, che si sia rifugiato nel suo territorio, ad un altro Stato, affinché venga sottoposto al giudizio penale). La nostra Costituzione appronta una difesa ferrea per lo straniero perseguitato politicamente e rifugiatosi nel nostro paese: infatti, in questo caso non viene operata una riserva di legge ma è addirittura una norma di rango costituzionale a garantire che lo straniero non possa essere estradato.

 

martedì 8 febbraio 2011

IL CONTRATTO DI CONVIVENZA


In Italia l'unione spirituale e patrimoniale tra un uomo e una donna può essere sancita attraverso l'istituto del matrimonio. In particolare, è lo Stato ad avere il ruolo di accertare la volontà di un uomo e una donna di contrarre matrimonio e a rendere effettiva l'unione.
Innanzitutto la legge dello Stato determina i requisiti necessari per celebrare un matrimonio (art. 84 e seguenti c.c.)e ne stabilisce il luogo e la forma di celebrazione (nella casa comunale e davanti all'ufficiale dello stato civile, art. 106 e seguenti c.c.; oltre ai casi di matrimonio religioso). Poi specifica i casi di nullità ed annullabilità del matrimonio (art. 117 e seguenti c.c.). Infine, sancisce i diritti e i doveri nascenti dal matrimonio (art. 143 e seguenti c.c.): in particolare, l'obbligo reciproco di fedeltà, di assistenza morale e materiale, l'obbligo di collaborazione e di coabitazione, l'obbligo di mantenere ed istruire la prole.
Tutta questa compiuta disciplina non riguarda i casi, sempre più frequenti, di quelle persone che scelgono di condividere spiritualmente e materialmente la vita senza celebrare il matrimonio. La scelta di queste persone può essere pienamente libera e consapevole (ad esempio, quella che compiono coloro che vedono nel matrimonio una sorta di convenzione fine a se stessa e che non aggiunge nulla alla loro vita) o "obbligata" (ad esempio quella di coloro che vorrebbero contrarre matrimonio ma non possiedono i requisiti per farlo: si pensi ai molti casi di coppie dello stesso sesso).
Nei casi in cui il matrimonio sia impossibile o semplicemente nei casi in cui la coppia ritenga di non ricorrere ad esso, è tuttavia possibile stipulare un contratto di convivenza. Le persone sono infatti libere di concludere contratti atipici (cioe' non espressamente disciplinati dalla legge) in piena autonomia, purche' "siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico" (art. 1322 del Codice civile).
Convivere significa anche accettare una situzione di fatto che non garantisce alcuna tutela in caso di cessazione del rapporto o nel caso in cui sia necessario distinguere chiaramente i ruoli e l'apporto di ciascun convivente alla vita comune: un contratto di convivenza consente di regolarizzare le questioni economiche e patrimoniali del rapporto, anche per il caso di rottura del legame.
E' possibile disciplinare contrattualmente tutti gli aspetti economici relativi alla vita quotidiana e a situazioni di straordinaria amministrazione, creare fondi comuni per la gestione della vita quotidiana, determinare diritti e doveri reciproci. E' possibile disciplinare contrattualmente il regime giuridico degli acquisti fatti durante la convivenza, tenendo presenti le norme che regolamentano la comunione ordinaria, prevedendo la contitolarita' dei beni e conferendo contrattualmente l'obbligo reciproco di trasferire all'altra persona quota del diritto acquistato.
E' possibile disciplinare con contratto anche i rapporti economici dopo la fine del rapporto, prevedendo ad esempio l'obbligo di pagamento di una penale da parte di uno dei due conviventi in favore dell'altro, in caso di cessazione del rapporto, disciplinando il regime che seguiranno i beni acquistati.

 

IL RUOLO DELLA PSICOLOGIA NELL'AMBITO DEL DIRITTO DI FAMIGLIA: IL PARERE DELLA DOTTORESSA LUISA GATTO

Negli ultimi tempi, quando una coppia va in crisi e comincia a parlare del suo malessere, si sente spesso consigliare dagli amici e dalle persone vicine di rivolgersi a uno psicologo (o a un terapeuta di coppia). In molti casi, lo stesso consiglio è dato anche dagli avvocati in cui le coppie, o un membro della coppia, si rivolgono per chiedere dei consigli legali data la situazione difficile del loro legame matrimoniale.
Quale aiuto può dare uno psicologo alla coppia in crisi?
 
In una fase molto iniziale, quando la coppia comincia a considerare che ci sono delle difficoltà così grandi che non si riescono ad affrontare da soli, l’incontro con lo psicologo può offrire uno spazio e un luogo dove parlare della crisi e analizzarla. In seguito, la coppia o la singola persona può prendere una decisione su come agire (separarsi, terapia personale o di coppia, ecc.) avendo avuto modo di vedere la situazione in cui si trova da differenti punti di vista.
 
In un periodo successivo, quando la decisione di separarsi è ormai stata presa, lo psicologo può fornire supporto emotivo a chi sente di aver subito questa decisione e ha bisogno di parlare con qualcuno del proprio dolore. Inoltre, nel caso siano presenti dei figli, lo psicologo può aiutare la coppia a trovare la modalità migliore per comunicare ai figli che cosa sta per succedere, a secondo della loro età e della particolare situazione in cui si trovano i genitori, così come può aiutare a concordare i modi di uscita da casa di uno dei partner per rendere meno difficile possibile questo passaggio ai figli.
 
Sempre nel caso della presenza di fili, lo psicologo può aiutare a pensare alla gestione dell’affido condiviso, mantenendo viva la coppia genitoriale dopo che la coppia matrimoniale si è separata. Questo non è un compito facile, in quanto richiede di conservare una dose importante di fiducia nelle capacità genitoriali dell’altro in un momento in cui invece lo si considera come una persona “malvagia” e che è capace di fare del male.
 
Spesso poi i genitori, in queste prime fasi della separazione e della gestione della nuova organizzazione familiare, hanno molti timori e ansie riguardo al benessere psicologico dei figli, sia attuale che futuro. Lo psicologo può, in questo caso, aiutare i genitori a leggere i comportamenti dei figli,  e cioè se siano normali reazioni alla situazione oppure segnali che vanno seguiti da vicino.
 
Lo psicologo inoltre può essere d’aiuto anche per quanto riguarda l’iter giudiziario della separazione. Infatti dal punto di vista emotivo il procedimento può risultare lungo e doloroso, quindi è importante trovare uno spazio dove poter portare il proprio dolore, senza che questo invada tutti gli spazi di casa e il tempo con i figli. Inoltre, in alcune situazioni, può essere necessario il ricorso a un consulente tecnico di parte (CTP) per alcuni aspetti come, ad esempio, l’affido dei minori, le modalità di frequentazione ed organizzazione, o la modificazione dell’affidamento stesso. Il ruolo del Consulente di Parte consiste nel preparare il cliente rispetto agli obiettivi della consulenza ufficiale, tenendo conto delle caratteristiche della stessa, e nell’aiutarlo ad affrontare una situazione psicologicamente stressante come quella del contesto valutativo tipico della consulenza d’ufficio.
Dott.ssa Luisa Gatto, Psicologa

venerdì 4 febbraio 2011

LA COSTITUZIONE ITALIANA: LA PIU' AFFASCINANTE DELLE LETTURE - ARTICOLO 9


Costituzione della Repubblica italiana, articolo 9: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione".
Si tratta di un articolo programmatico: è una norma che impegna contemporaneamente il legislatore, il   governo, gli enti locali, tutta l'amministrazione pubblica ma anche i singoli cittadini e le loro attività.
Da parte sua, lo Stato deve promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca, dunque, il suo compito è quello di porre le condizioni economiche e sociali perchè questi due aspetti fondamentali della vita umana abbiano vigore.
Nella pratica, l'impegno a promuovere lo sviluppo della cultura si traduce nell'istituire scuole di ogni ordine e grado, nella creazione di musei, teatri, impianti sportivi e, in generale, nell'agevolazione di qualsiasi attività umana che consenta all'individuo una piena e completa espressione della propria personalità. D'altra parte, proprio perchè l'impegno della Repubblica è quello di promuovere e non quello di imporre la cultura, sta ai singoli cittadini e alle associazioni sfruttare le opportunità che lo Stato italiano offre. Direi che per il cittadino si tratta di un diritto-dovere quello di accrescersi culturalmente, sempre nella logica secondo la quale il miglioramento del singolo consente il miglioramento della società.
E non a caso, a mio parere, lo sviluppo della cultura viene messo in primo piano rispetto allo sviluppo della ricerca scientifica e tecnica: credo si sia voluto sottolineare come la più grande ricchezza, tanto per il singolo, quanto per il Paese intero, sia la conoscenza di se stessi e delle realtà  culturali.
E' altrettanto vero che lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnica qualifica il nostro Stato come un Paese lungimirante e proiettato al futuro e ad un sempre crescente benessere dei propri cittadini. Anche in questo caso si tratta di una disposizione programmatica: lo Stato e gli enti pubblici sono chiamati a porre le basi affinchè possano svilupparsi tutte le conoscenze tecniche e scientifiche.
In questo caso, l'impegno dello Stato si traduce nell'istituzione di ospedali, laboratori, centri di ricerca, poli scientifici, nel finanziamento e nella sperimentazione di nuove tecniche da parte di soggetti pubblici e privati e, in generale, nell'agevolazione di qualsiasi contributo che possa essere fornito ai fini della continua ricerca di un sempre maggiore benessere collettivo.
E' significativo, poi, che in questa norma la Costituzione ponga il principio della tutela del paesaggio. Si pensi, ad esempio, ad una nuova tecnica scientifica che (per ottenere risultati significativi) richieda l'abbattimento di molte foreste o l'inquinamento di acque fluviali o un eccessivo sfruttamento di risorse minerarie: la norma in questione, evidentemente, pone accanto al principio del progresso tecnico e scientifico il principio della conservazione del nostro suolo, delle nostre acque, delle nostre risorse, insomma il principio dello sviluppo ecosostenibile.
E la Costituzione non impone di conservare con cura solo la nostra eredità territoriale ma anche la nostra eredità culturale: perciò viene espressamente imposta allo Stato e al singolo cittadino la massima cura per la conservazione del patrimonio artistico e culturale della Nazione. 
In quest'ottica tutti noi dobbiamo sentirci responsabili, affinchè le opere artistiche che ci sono state lasciate in eredità possano giungere alle generazioni future in condizioni impeccabili.
 Pensare che il Colosseo, il Duomo di Milano, la Torre di Pisa, la Galleria degli Uffizi, l'Arena di Verona, la Mole Antonelliana, la Valle dei Templi sono tutti beni che ci appartengono (ognuno di noi idealmente ne possiede un pezzettino) ci deve indurre a sentirci e a comportarci come gelosi custodi di una preziosa eredità.

mercoledì 2 febbraio 2011

LA RESPONSABILITA' PROFESSIONALE DEL MEDICO


La Corte d'Appello di Roma con la sentenza n. 5342/2010 ha accolto la domanda di risarcimento dei danni avanzata da un uomo, condannando, in solido tra loro, sia il dottore che lo aveva operato sia la clinica a pagamento dove si era svolto l'intervento.
La Corte ha riconosciuto la responsabilità professionale del medico per inadempimento contrattuale nei confronti del paziente in quanto, con l'operazione, non era stato raggiunto il risultato espressamente indicato e prospettato con una percentuale “un po' trionfalistica” di riuscita di addirittura il 99,20%.
Questa sentenza risulta essere molto interessente, poichè la Corte ha affermato che l'esito non positivo dell'intervento chirurgico dovesse essere eziologicamente ricollegato all'operato del medico, non perchè l'intervento stesso, in quanto malamente eseguito, avesse dato causa all'insorgenza di una patologia non esistente, ma perchè la soluzione della problematica sanitaria riscontrata sul paziente, che si era fatta prospettare come di sicura soluzione (indicata al 99,20% nel foglio di consenso informato firmato dal paziente), non venne risolta affatto: la colpa del sanitario, o meglio la sua responsabilità, andrebbe individuata, infatti, nel mancato raggiungimento del risultato espressamente indicato e prospettato al paziente, avendo assunto in tal modo un'obbligazione di risultato piuttosto che quella di semplice adozione di mezzi adeguati alla soluzione del caso, pur con il margine di imprevisti propri di ogni terapia medica.
La Corte ha, perciò, ribadito che il sanitario è tenuto, per effetto delle regole in tema di responsabilità contrattuale, a rispondere delle conseguenze dannose cagionate al paziente ex artt. 1218 e 1223 c.c.
Inoltre, nel contratto di prestazione d'opera intellettuale tra il chirurgo ed il paziente, il professionista, tanto più qualora abbia assicurato il raggiungimento di un risultato specifico, ha il dovere di informare il paziente sulla natura dell'intervento, sulla portata dei suoi risultati e sulle possibilità e probabilità dei risultati conseguibili, sia perchè in mancanza violerebbe il dovere di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.) sia perchè tale informazione è indispensabile per la validità del consenso (che deve essere consapevole) al trattamento terapeutico, senza del quale l'intervento sarebbe impedito al chirurgo tanto dall'art. 32 comma II Cost. (a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge), quanto dall'art. 13 Cost. (che garantisce la libertà personale, ivi compresa quella di disporre delle propria salvaguardia fisica).