venerdì 16 giugno 2017

RIFORMA DEL CODICE PENALE E DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE. LE PRINCIPALI NOVITA’

La Camera dei deputati ha definitivamente approvato la proposta di legge C. 4368, che modifica l'ordinamento penale, sia sostanziale che processuale, nonché l'ordinamento penitenziario. Vediamo le principali novità introdotte.
Estinzione del reato per riparazione
Viene introdotto l’art. 162 bis c.p., il cui primo comma recita: “nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione, il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato”. Dunque, riguardo tutti quei reati che sono perseguibili a querela, e sempre che la querela sia remissibile, laddove l'imputato ripari integralmente il danno tramite restituzione o risarcimento e ne elimini le conseguenze, il giudice potrà dichiarare estinto il reato.
Aumento delle pene per alcuni reati
Vengono aumentate le pene per alcuni reati.
Le pene previste dall’art. 416 ter c.p. (Scambio elettorale politico-mafioso) passano dagli attuali 4-10 anni di reclusione a 6-12 anni di reclusione.
Quelle previste dal primo comma dell’art. 624 bis c.p. (Furto in abitazione e furto con strappo) passano dagli attuali 1-6 anni di reclusione a 3-6 anni di reclusione (viene aumentato anche l’importo della multa prevista). Le pene previste dal terzo comma dello stesso articolo (ipotesi aggravate) passano dagli attuali 3-10 anni di reclusione a 4-10 anni di reclusione (anche in queste ipotesi viene aumentato l’importo della multa prevista).
Le pene previste dall’art. 625 c.p. per le ipotesi di furto aggravato passano dagli attuali 1-6 anni di reclusione a 2-6 anni di reclusione (viene aumentato anche l’importo della multa prevista).
Per il reato previsto dall’art. 628 c.p. (Rapina) le pene previste dal primo comma passano dagli attuali 3-10 anni di reclusione a 4-10 anni di reclusione (viene aumentato anche l’importo della multa prevista); quelle previste dal terzo comma (ipotesi aggravate) passano dagli attuali 4 anni e sei mesi-20 anni di reclusione a 5-20 anni di reclusione (anche in queste ipotesi viene aumentato, nel minimo, l’importo della multa prevista).
Per il reato previsto dall’art. 629 c.p. (Estorsione) le pene previste dal secondo comma (ipotesi aggravate) passano dagli attuali 6-20 anni di reclusione a 7-20 anni di reclusione.
Modifiche in tema di prescrizione
All’art. 158 c.p. viene introdotta una sorta di prescrizione “differita”; infatti, riguardo alcuni reati come maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli (art. 572 c.p.), riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), prostituzione minorile (art. 600 bis c.p.), detenzione di materiale pedopornografico (art. 600 quater c.p.), violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), adescamento di minorenni (art. 609 undecies c.p.) e stalking (art. 612 bis c.p.), se commessi nei confronti di un minore, il termine della prescrizione viene fatto decorrere dal compimento del diciottesimo anno di età della persona offesa, salvo che l’azione penale sia stata esercitata precedentemente. In quest’ultimo caso il termine di prescrizione decorre dall’acquisizione della notizia di reato.
All’art. 159 c.p. viene introdotta una nuova ipotesi di sospensione della prescrizione: infatti, il corso della prescrizione rimane sospeso per un periodo di 18 mesi dopo la sentenza di condanna in primo grado e di ulteriori 18 mesi dopo la condanna in appello.
All’art. 161 c.p. viene introdotta una modifica con la quale si allungano i tempi di prescrizione per i reati di corruzione (propria e impropria), con termini massimi pari alla pena edittale aumentata della metà della stessa (in luogo di un quarto).
Modifiche di natura processuale
All’art. 162 c.p.p. (Comunicazione del domicilio eletto) viene previsto che in caso di elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio, dovrà essere comunicato all'autorità procedente, insieme alla dichiarazione di elezione, anche l'assenso del difensore domiciliatario.
Riguardo alle indagini preliminari:
all’art. 335 c.p.p. (Registro delle notizie di reato) viene introdotto il comma 3 ter con il quale si prevede che la persona offesa dal reato potrà chiedere informazioni sullo stato del procedimento penale nel quale ha presentato la denuncia o la querela, decorsi 6 mesi dalla presentazione della denuncia; le informazioni potranno essere rese a condizione che ciò non pregiudichi il segreto investigativo;
 - all’art. 407 c.p.p. (Termini di durata massima delle indagini preliminari) viene introdotto il comma 3 bis al fine di contrastare i tempi morti per il rinvio a giudizio o l'archiviazione: allo scadere del termine di durata massima delle indagini preliminari il P.M. dovrà decidere entro 3 mesi se chiedere l'archiviazione o esercitare l'azione penale, così obbligando il P.M. ad assumere una posizione rispetto alla notizia di reato; in caso contrario l'indagine sarà avocata dal procuratore generale presso la corte d'appello; 
- all’art. 408 c.p.p. (Richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato) passa da 10 a 20 giorni il termine concesso alla persona offesa per opporsi alla richiesta di archiviazione e chiedere la prosecuzione delle indagini; ed anche per il furto in abitazione o con strappo (art. 624 bis c.p.p), oltre che per i delitti commessi con violenza alla persona, il P.M. dovrà notificare alla persona offesa la richiesta di archiviazione concedendogli 30 giorni (in luogo dei precedenti 20) per opporsi;
Riguardo ai procedimenti speciali:
all’art. 438 c.p.p. (Presupposti del giudizio abbreviato) viene modificato il comma 4 nel quale è aggiunta la seguente previsione: “quando l’imputato chiede il giudizio abbreviato immediatamente dopo il deposito dei risultati delle indagini difensive, il giudice provvede solo dopo che sia decorso il termine non superiore a sessanta giorni, eventualmente richiesto dal pubblico ministero, per lo svolgimento di indagini suppletive limitatamente ai temi introdotti dalla difesa. In tal caso, l’imputato ha facoltà di revocare la richiesta”;
e ancora all’art. 438 c.p.p. viene introdotto il comma 5 bis con il quale si prevede la possibilità per l’imputato di chiedere, subordinatamente al rigetto da parte del giudice della richiesta di giudizio abbreviato condizionato, il giudizio abbreviato semplice od il patteggiamento;
sempre riguardo al giudizio abbreviato, l’art. 442 c.p.p. prevede una nuova disciplina in tema di riduzione di pena: infatti, se il rito abbreviato riguarda un delitto è confermata la diminuzione della pena di un terzo; se invece si tratta di contravvenzione, la pena è ridotta alla metà;
Riguardo al giudizio:
all’art. 546 c.p.p. vengono precisati alcuni requisiti necessari della sentenza, la quale dovrà contenere “la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati e con l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, con riguardo: 1) all'accertamento dei fatti e alle circostanze relative all'imputazione e alla loro qualificazione giuridica; 2) alla punibilità e alla determinazione della pena e della misura di sicurezza; 3) alla responsabilità civile da reato; 4) all'accertamento dei fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali”;
- in tema di ragguaglio tra pene detentive e pene pecuniarie, il valore di un giorno di pena detentiva è ridotto da 250 a 75 euro; una norma speciale sul ragguaglio è prevista per il procedimento per decreto penale di condanna: all’art. 459 c.p.p. viene inserito il comma 1 bis, con il quale si demanda al giudice una valutazione circa il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato (valore che poi deve essere moltiplicato dal giudice per i giorni di pena detentiva); e nella determinazione di tale ammontare, il giudice deve tenere conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare; in ogni caso il valore non può essere inferiore alla somma di euro 75 e non può superare di tre volte tale ammontare.
Disciplina delle impugnazioni
La riforma introduce rilevanti novità anche in tema di impugnazioni.
Innanzitutto viene stabilito che l'impugnazione possa essere proposta personalmente dall'imputato purché non si tratti di ricorso per cassazione: dunque, la parte non potrà più provvedere personalmente alla presentazione del ricorso per cassazione (modificati in tal senso gli artt. 571 e 613 c.p.p.).
L’art. 581 c.p.p. (Forma dell’impugnazione) viene riformato con la previsione che l'atto di impugnazione debba contenere necessariamente, a pena d'inammissibilità, anche l'indicazione delle prove delle quali si deduce l'inesistenza o l'omessa o erronea valutazione.
Viene poi introdotto l’art. 599 bis c.p.p. con il quale si disciplina il c.d. patteggiamento (o concordato sui motivi) in appello: le parti potranno concludere un accordo sull'accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi d'appello, da sottoporre al giudice d'appello, che deciderà̀ in merito in camera di consiglio. Se l'accordo comporterà una rideterminazione della pena, anche la nuova pena dovrà essere concordata tra le parti e sottoposta al giudice: se il giudice deciderà di non accogliere il concordato tra le parti, dovrà ordinare la citazione a comparire al dibattimento.
All’art. 603 c.p.p. (Rinnovazione dell’istruzione dibattimentale) viene introdotto il comma 3 bis con il quale si prevede che il giudice di secondo grado debba disporre la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale quando l'appello sia stato proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa.
All’art. 606 c.p.p. (Ricorso del pubblico ministero) viene introdotto il comma 1 bis con il quale si prevede che “se il giudice di appello pronuncia sentenza di conferma di quella di proscioglimento, il ricorso per cassazione può essere proposto solo per i motivi di cui alle lettere a), b) e c) del comma 1 dell’articolo 606”. Dunque, qualora in appello sia stata confermata la sentenza di proscioglimento, il pubblico ministero vedrà limitati i casi in cui potrà proporre ricorso per cassazione.
Delega al Governo
La riforma contiene, inoltre, una delega al Governo, che viene incaricato di riordinare il sistema penitenziario, in particolare attraverso la semplificazione delle procedure innanzi al magistrato e al tribunale di sorveglianza, nonché attraverso la revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative alla detenzione, al fine di renderle più accessibili.  
Il Governo è delegato, altresì, ad adottare decreti legislativi per la riforma della disciplina in materia di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni. In particolare, il Governo dovrà prevedere disposizioni dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni (in particolare dei difensori nei colloqui con l’assistito) e delle conversazioni telefoniche e telematiche oggetto di intercettazione. Inoltre, la delega incarica il Governo di prevedere l'introduzione di una nuova fattispecie di reato volta a punire la diffusione del contenuto di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni telefoniche captate fraudolentemente, con finalità di recare danno alla reputazione; la punibilità dovrà comunque ritenersi esclusa quando le registrazioni o le riprese siano state utilizzate nell’ambito di un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca.
Il Governo è chiamato a regolare anche la disciplina dei captatori informatici (c.d. Trojan), ossia di quei software che possono essere installati all’insaputa dell’utente sui suoi dispositivi elettronici (cellulari, tablet, computer) per effettuare registrazioni e raccogliere prove.

lunedì 3 aprile 2017

LA RIFORMA DELLA RESPONSABILITA’ MEDICA: LE PRINCIPALI NOVITA'

E' stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 17 marzo 2017 la Legge (n. 24/2017) di riforma della responsabilità medica (recante "Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie").
Le principali novità in sintesi.
Responsabilità penale del medico: introduzione dell’art. 590 sexies c.p.
L’art. 6 della legge n. 24/2017 introduce un nuovo articolo nel codice penale, l’art. 590 sexies (Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario), il quale dispone che “se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 (omicidio colposo o lesioni personali colpose) sono commessi nell'esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma”; ed il secondo comma dispone al riguardo che “qualora l'evento si è verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto".
Dunque, con l’introduzione di questo nuovo articolo del codice penale, viene abrogata la disposizione penale della legge Balduzzi, che prevedeva la punibilità solo per colpa grave nell’ipotesi in cui il sanitario si fosse attenuto a linee guida. Inoltre, non occorre più distinguere fra colpa grave e colpa lieve poiché l’art. 590 sexies c.p. non distingue i gradi di colpa.
Con la nuova disposizione in esame, pertanto, la punibilità del medico, nei casi di omicidio colposo o lesioni colpose, è esclusa in presenza di precisi presupposti. Innanzitutto, l’evento lesivo deve essere conseguente ad imperizia (concetto distinto da imprudenza e negligenza), in secondo luogo il medico deve essersi attenuto rigorosamente alle raccomandazioni previste dalle linee guida (oppure, in mancanza di queste, alle buone pratiche clinico-assistenziali), assicurandosi della loro adeguatezza alle specificità del caso concreto.
Responsabilità civile del medico e della struttura sanitaria
L’art. 7 della legge n. 24/2017 sancisce che “la struttura sanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose”.
Dunque, viene sancita la natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria. E ciò comporta delle importanti conseguenze, una su tutte sul piano probatorio: la responsabilità contrattuale ex artt 1218 e 1228 c.c., infatti, comporta che sia il debitore, in questo caso la struttura sanitaria, ad essere gravata dell'onere di dimostrare di non aver potuto correttamente adempiere alla propria obbligazione per una causa ad essa non imputabile.
Al contrario, il comma 3 dell’art. 7 sancisce che il medicorisponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”.
Quindi, salva l’ipotesi in cui medico e paziente abbiano inteso accordarsi contrattualmente circa l’esecuzione della prestazione sanitaria, il medico risponderà del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 c.c., ossia secondo la disciplina della responsabilità extracontrattuale. E in questo caso, a differenza di quanto previsto per la struttura sanitaria, il regime probatorio è diametralmente opposto: infatti, è colui che agisce per ottenere il risarcimento che ha l'onere di provare non solo il pregiudizio subito, ma anche la riconducibilità di esso al comportamento del medico (il paziente deve, cioè, dimostrare il nesso causale tra il comportamento del medico e l’evento dannoso).
Tentativo obbligatorio di conciliazione
L’art. 8 della legge n. 24/2017 stabilisce che “chi intende esercitare un'azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell'articolo 696-bis del codice di procedura civile (ricorso per consulenza tecnica preventiva) dinanzi al giudice competente”. Dunque, prima di svolgere l'azione civile di risarcimento danni da responsabilità sanitaria, il paziente che si ritenga danneggiato è tenuto (a pena di improcedibilità della propria domanda) a proporre preliminarmente un ricorso per consulenza tecnica preventiva. In alternativa la legge consente di avvalersi del procedimento di mediazione ai sensi del D.lgs. n. 28/2010.
Tale norma è ovviamente finalizzata alla ricerca di una conciliazione tra le parti. Qualora, tuttavia, la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile. 
La partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva è obbligatoria per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione, che hanno l'obbligo di formulare l'offerta di risarcimento del dannocomunicare i motivi per cui ritengono di non formularla.
Azione di rivalsa e obbligo di assicurazione
L’art. 9 della legge n. 24/2017 stabilisce che l'azione di rivalsa da parte della struttura sanitaria nei confronti del medico può essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave. 
L’art. 10 stabilisce per le strutture sanitarie (sia pubbliche che private) l'obbligo di copertura assicurativa per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso prestatori d'opera; la copertura si estende anche ai danni cagionati dal personale a qualunque titolo operante presso le strutture sanitarie sia pubbliche che private. Resta fermo l'obbligo di copertura assicurativa per il medico che eserciti al di fuori della struttura sanitaria o che presti la propria opera all’interno della stessa in regime libero-professionale o si avvalga della stessa nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente.
Azione diretta del soggetto danneggiato
L’art. 12 della legge n. 24/2017 introduce l’azione diretta del soggetto danneggiato, entro i limiti del massimale, nei confronti dell'impresa di assicurazione che presta la copertura assicurativa alle strutture sanitarie e al medico. Dunque, il paziente danneggiato potrà agire direttamente nei confronti dell’assicurazione per ottenere il risarcimento del danno subito in conseguenza della responsabilità della struttura sanitaria o del medico assicurati. In tali casi, tuttavia, struttura sanitaria o medico saranno litisconsorti necessari, ossia dovranno obbligatoriamente partecipare al giudizio promosso dal danneggiato nei confronti l’assicurazione.

venerdì 31 marzo 2017

ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE AL MARITO SE L'ABBANDONO DEL TETTO CONIUGALE DA PARTE DELLA MOGLIE E' CONSEGUENZA DEL TRADIMENTO DI LUI

L’art. 143 del codice civile stabilisce che “con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri”; in particolare “dal matrimonio deriva l'obbligo reciproco alla fedeltà, all'assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell'interesse della famiglia e alla coabitazione”.
Dunque, marito e moglie devono essere reciprocamente fedeli, devono riservare assistenza morale e materiale al coniuge, collaborando attivamente nella conduzione della vita familiare, e hanno il dovere di coabitare.
Qualora uno dei coniugi violi gravemente uno o più dei predetti doveri e qualora tale suo comportamento costituisca la causa determinante la crisi dell’unione matrimoniale, l’altro coniuge ha la facoltà di domandare al Tribunale che venga accertata, dichiarata e addebitata al primo la responsabilità della separazione personale dei coniugi.
Sovente capita che entrambi i coniugi affermino che la crisi matrimoniale sia conseguenza del comportamento dell’altro ed altrettanto spesso avviene che all’interno di un procedimento di separazione entrambe le parti formulino domanda di addebito della separazione all’altro coniuge.
In questi casi il Giudice è chiamato a compiere una valutazione decisiva; in particolare, sulla base delle affermazioni e delle prove sottoposte alla sua attenzione dalla parti, egli deve stabilire quale violazione dei doveri coniugali in concreto abbia determinato la crisi del matrimonio e, qualora le violazioni siano reciproche, se quelle di un coniuge non siano causa della crisi ma conseguenza del precedente comportamento scorretto dell’altro coniuge.
E proprio riguardo ad un caso simile è stata chiamata a giudicare la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7469/2017. Marito e moglie avevano affrontato un procedimento di separazione giudiziale a seguito del quale il Tribunale aveva addebitato la separazione al marito; tale decisione era stata poi confermata in appello. Col ricorso in Cassazione il marito lamentava la non corretta valutazione, in sede di giudizio di merito, del proprio comportamento, e ciò alla luce di quello tenuto dalla moglie; l’uomo, infatti, sosteneva che il suo venir meno ai doveri coniugali (in particolare l’instaurazione di una relazione extraconiugale) fosse da considerarsi non più grave e persino conseguenza del comportamento della moglie. Tuttavia, la Suprema Corte con la predetta sentenza ha affermato che correttamente il Giudice di merito aveva attentamente valutato il reciproco comportamento tenuto dai coniugi, giungendo a stabilire che l’allontanamento della moglie dalla casa coniugale (circostanza addotta dal marito per domandare l’addebito della separazione alla moglie) non avesse costituito violazione del dovere di coabitazione, essendo stato determinato proprio dalla scoperta della relazione extraconiugale intrapresa dal marito con un’altra donna; è proprio tale scoperta era stata individuata dal Giudice di merito come causa  dei continui litigi tra i coniugi e dell’irreversibile crisi matrimoniale, con la conseguente addebitabilità della separazione al marito. Dunque, la Cassazione nega che il Giudice di merito abbia omesso di valutare i comportamenti della moglie ma, al contrario, ritiene che siano stati correttamente valutati come conseguenza (e non come causa) del comportamento del marito e che conseguentemente gli stessi non avrebbero potuto incidere sull’addebitabilità della separazione, coerentemente attribuita al marito.

martedì 14 marzo 2017

GUIDA IN STATO DI EBBREZZA E APPLICABILITA’ DELL’ART. 131 BIS C.P. (NON PUNIBILITA’ PER PARTICOLARE TENUITA’ DEL FATTO)

Con la sentenza n. 13681/2016 le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, enunciando numerosi principi giuridici, hanno affermato l’applicabilità anche al reato di guida in stato di ebbrezza della causa di non punibilità introdotta nel codice penale all’art. 131 bis.
Il primo comma di tale articolo (rubricato “esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”) afferma che “nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, primo comma, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.
Dunque, l’art. 131 bis c.p. introduce nell’ordinamento penale italiano la possibilità di considerare non punibile un comportamento, astrattamente riconducibile ad una fattispecie penalmente rilevante, laddove il danno o il pericolo da esso generato siano da considerarsi particolarmente tenui, e ciò in considerazione della concreta condotta tenuta dall’agente.
Ebbene, sia la dottrina che la giurisprudenza si sono interrogate sull’applicabilità di tale valutazione a reati per i quali, all’apparenza, sembrava che fosse già stato svolto a priori un giudizio circa il disvalore rilevante e quindi “non particolarmente tenue” della fattispecie criminosa. Infatti, nei reati come quello di guida in stato di ebbrezza (disciplinato e punito dall’art. 186 comma 2 c.d.s.) il legislatore ha previsto precise soglie al di sotto delle quali la presenza di alcool nel sangue è ritenuta lecita e sopra le quali, al contrario, il reato si considera integrato. Sembra, pertanto, preclusa, in casi di questo tipo, una valutazione che possa condurre ad una dichiarazione di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131 bis c.p.
Tuttavia, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 13681/2016 ha stabilito che anche nell’ipotesi di guida in stato di ebbrezza si possa e, anzi, si debba operare una valutazione circa la condotta dell’agente e le conseguenze dannose (o di pericolo) determinate dal suo comportamento e, alla luce di tale giudizio, si possa applicare la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis.
Preliminarmente, la Cassazione ricorda che il fatto particolarmente tenue va individuato alla stregua di caratteri riconducibili a tre categorie di indicatori: 1) le modalità della condotta, 2) l'esiguità del danno o del pericolo, 3) il grado della colpevolezza. E per la Suprema Corte non esiste un'offesa tenue o grave in sé, bensì è la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore; qualunque reato, persino l'omicidio, potrebbe essere considerato tenue (si pensi all’ipotesi in cui la condotta illecita abbia condotto ad abbreviare la vita solo di pochissimo).
Pertanto, a parere della Cassazione, l’art. 131 bis c.p. non si interessa della condotta tipica, bensì ha riguardo alle forme di estrinsecazione del comportamento, al fine di valutarne complessivamente la gravità, l'entità del contrasto rispetto alla legge e conseguentemente il bisogno di pena. E la valutazione circa la gravità del comportamento deve poggiare sull’accertamento dell’intensità del dolo e del grado di colpa, nonché sulla ponderazione dell’entità del danno o del pericolo. E proprio su quest’ultimo aspetto “nessuna precostituita preclusione categoriale è consentita, dovendosi invece compiere una valutazione mirata sulla manifestazione del reato, sulle sue conseguenze”. Dunque, l’art. 131 bis c.p. è applicabile anche al reato di guida in stato di ebbrezza (fattispecie rientrante nella categoria degli illeciti che presentano una soglia quantitativa che segna l'ambito di rilevanza penale del fatto o che regola la gravità dell'offesa). Infatti, anche in questo caso la valutazione deve riguardare la fattispecie concreta nel suo complesso e quindi tutti gli aspetti già menzionati (condotta, conseguenze del reato e colpevolezza). Ed è ovvio che quanto più ci si allontana dal valore-soglia tanto più è verosimile che ci si trovi in presenza di un fatto non specialmente esiguo, tuttavia ciò va appurato in concreto. Al riguardo, la Cassazione presenta un esempio illuminante, quello dell'agente che, in stato di grave alterazione alcoolica integrante la fattispecie di cui all'art. 186, comma 2, lettera c) (ossia l’ipotesi più grave di guida in stato di ebbrezza), si pone alla guida di un'auto in un parcheggio isolato, spostandola di qualche metro e senza determinare alcuna situazione pregiudizievole; nella valutazione di tale comportamento ben potrebbe essere applicata la non punibilità ai sensi dell’art. 131 bis c.p., dal momento che, in concreto, la condotta tenuta dall’agente ha determinato una situazione di pericolo valutabile come particolarmente tenue.

lunedì 27 febbraio 2017

EUTANASIA: LA SITUAZIONE NORMATIVA IN ITALIA

Il caso del dj Fabo, un uomo rimasto tetraplegico e cieco a seguito di un incidente stradale avvenuto nel 2014, il quale, dopo un accorato appello al Presidente della Repubblica ed al Parlamento affinché venisse finalmente discussa la regolamentazione del cosiddetto “fine vita”, ha scelto di recarsi in Svizzera al fine di vedersi riconosciuto il diritto di porre volontariamente fine alla propria vita, ha riportato all’attenzione dei media e dell’opinione pubblica il tema dell’eutanasia.
Per eutanasia (dal greco eu – bene, e thanatos – morte, dunque traducibile in dolce morte) si intende comunemente il procurare la morte ad un individuo, la cui qualità della vita sia stata gravemente e permanentemente compromessa a seguito di una malattia o di una menomazione fisica o psichica.
L’eutanasia può essere attiva (laddove vengano somministrati farmaci aventi l’effetto di provocare la morte) o passiva (laddove venga interrotto un trattamento medico). Entrambe le suddette fattispecie possono a loro volta suddividersi in due sottocategorie: volontaria ossia consensuale (quando è il soggetto stesso che chiede ed ottiene di porre fine alla propria vita), involontaria ossia non consensuale (quando è un soggetto terzo a chiedere ed ottenere per un altro individuo il decesso di quest’ultimo).
In Italia non esiste al momento una regolamentazione del cosiddetto “fine vita” e l’eutanasia è di fatto assimilata all’omicidio.
In particolare l’eutanasia attiva è considerata omicidio volontario e, pertanto, è punita ai sensi dell’art. 575 c.p. (“chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”). Anche nel caso di eutanasia passiva può essere configurato il reato di omicidio volontario, e ciò ai sensi dell’art. 40 c.p. (che equipara il non impedire l’evento al cagionarlo volontariamente); in tal ipotesi, tuttavia, il reato viene in essere solo ove sussista a carico del responsabile un esplicito dovere giuridico di impedire l’evento morte; inoltre, l’orientamento prevalente considera punibile la sola eutanasia passiva non consensuale.
All’interno della fattispecie dell’eutanasia attiva, qualora sia stato manifestato il consenso del deceduto viene configurata l’ipotesi di omicidio del consenziente, punita ai sensi dell’art. 579 c.p. (“chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni”).
Anche il suicidio assistito è ritenuto reato ed è punito ai sensi dell’art. 580 c.p. (“chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”).
Quanto all’eutanasia passiva consensuale, invece, essa può ritenersi lecita. La diversa valutazione giuridica rispetto alle predette ipotesi, considerate illecite e perciò punite, trae origine dalla disposizione costituzionale di cui all’art. 32, 2° comma (“nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge”). Da tale principio costituzionale, infatti, si deduce che la scelta di sottoporsi o meno alle cure è un diritto di libertà della persona, per cui non è possibile praticare una cura contro la volontà espressa del paziente, anche quando l’omissione della cura o la sua sospensione porti alla morte. Se dunque il malato esercita il suo diritto di non curarsi, il medico ha l’obbligo di sospendere le cure e l’eventuale persistenza dell’attività medica viene condannata come accanimento terapeutico. Bisogna però precisare che la Costituzione non garantisce il diritto di morire, ma il più limitato diritto di non curarsi.