venerdì 29 ottobre 2010

SULLA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA


Si fa un gran parlare della riforma della Giustizia. Vorrei esprimere il mio modesto parere da operatore.
Innanzitutto, reputo che la riforma della Giustizia dovrebbe partire da quella Civile: è un concetto che ripeto da molto tempo (e che, per fortuna, ha abbracciato anche il Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia). La lentezza della Giustizia Civile, oltre che costituire un grave vulnus per la convivenza sociale del nostro paese, rappresenta la causa principale di crisi economica per moltissime aziende, soprattutto quelle piccole. Col sistema attuale, infatti, basato su un processo che deve rispettare stupidi, quanto inutili termini temporali, i procedimenti durano un tempo assolutamente vergognoso per uno stato occidentale.
Dunque, essendo praticamente impronosticabile la durata di un processo (anche solo per ciò che riguarda il primo grado di giudizio), moltissime realtà imprenditoriali vedono frustrato il proprio diritto (è bene ricordarlo, costituzionalmente garantito) di agire in giudizio per la tutela dei propri interessi. Da tale situazione discende una orribile distorsione: le imprese più solide, a volte quelle più grandi, altre volte semplicemente quelle che non viaggiano, per così dire, sul filo del rasoio, si sentono in diritto di mantenere comportamenti assolutamente inqualificabili, arrivando ad imporre ai propri creditori tempi e modi per il pagamento delle loro spettanze.
Infatti, le piccole imprese, quando si trovano nella posizione di essere creditrici di aziende più grandi, imboccano una sorta di vicolo cieco: sono costrette a lavorare a prezzi stracciati per rimanere nel mercato (fra l'altro vessate da un fisco iniquo) e a dovere rincorrere i pagamenti da parte dei propri clienti, sapendo bene che l'azione giudiziaria costituirebbe un costo immediato notevole fra avvocati e spese di giustizia, oltretutto senza la garanzia di giungere ad una pronuncia favorevole in tempi rapidi; e quando anche la sentenza dovesse essere favorevole, si aprirebbe il girone dantesco dell'esecuzione del provvedimento giudiziario.
Infatti, quando (dopo moltissimi soldi spesi e dopo anni di fatiche) si raggiunge una sentenza o un decreto ingiuntivo, la legge mette a disposizione dell'onesto cittadino e dell'impresa onesta pochissimi strumenti, i quali sono facilmente aggirabili da chi ha interesse a che la sentenza o il decreto non produca i propri effetti. I pignoramenti mobiliari ed immobiliari (i quali, anch'essi, comportano costi non indifferenti fra avvocati e spese di giustizia) in molti casi risultano infruttiferi. E ciò avviene senza che il debitore subisca alcuna conseguenza negativa.
Chi opera all'interno della macchina Giustizia conosce molto bene quello che dico ma lo conosce bene anche un numero incalcolabile di imprenditori e professionisti. Purtroppo, lo stato italiano non ha avuto, sino ad ora, la lungimiranza per capire che, velocizzando la Giustizia Civile, trarrebbero vantaggi fette enormi dell'economia nazionale.
Ultimamente il legislatore ha inteso risolvere l'arretrato del Giustizia Civile con l'introduzione della cosiddetta Mediazione: per quanto mi riguarda si tratta di una scelta nefasta. In sostanza lo Stato dice al cittadino: non avendo mezzi per risolvere il tuo problema, cerca di risolvertelo da solo, rivolgendoti insieme alla tua controparte ad un giudice privato (il mediatore, che verrà profumatamente pagato) che nella migliore delle ipotesi ti consiglierà di accordare uno sconto al tuo debitore. Sicchè, avverrà questo: un'impresa ha lavorato onestamente, ha consegnato, ad esempio, una macchina che lavora l'acciaio ad una cliente più grande, questa macchina è costata 90.000 euro a chi l'ha prodotta e viene venduta al prezzo di 100.000 euro (dunque, il guadagno per l'impresa più piccola è di 10.000 euro), l'impresa grande si rifiuta di pagare, anche senza motivo, allora quella piccola si rivolge ad un mediatore e questo cercherà di far capire a chi è nel giusto che si deve accontentare di chiedere solo 90.000 euro, perchè quanto meno si copre il buco in banca. Insomma, si arriverà a lavorare gratis.
La soluzione per la Giustizia italiana risiede non nella Mediazione ma su questi fondamentali pilastri: 1) fondi da destinare per la nomina di nuovi magistrati e cancellieri e per l'ammodernamento e l'informatizzazione delle strutture giudiziarie; 2) una riforma del processo civile che vada nella direzione di rendere possibile una sentenza in primo grado nel giro di 6 mesi dall'inizio del procedimento; 3) una riforma del processo esecutivo che consenta ai creditori di potere porre in atto i provvedimenti favorevoli e che comporti sanzioni, anche penali, nei confronti delle imprese che si comportano in maniera scorretta.
Due righe si debbono anche alla Giustizia Penale, argomento tanto caro ai pluripregiudicati che siedono in Parlamento.
Sì, il processo penale deve essere breve ma anche qui la rapidità deve essere conseguita, innanzitutto, con un potenziamento del personale e delle strutture.
La prescrizione all'italiana è profondamente sbagliata: altro che abbreviarla! Negli altri stati la prescrizione dei reati corre fino a che non sei scoperto: ma quando il processo inizia la prescrizione si arresta per sempre. Ciò fa sì che gli avvocati debbano fare il loro lavoro, ossia difendere i propri assistiti, e non, come avviene in Italia, cercare ogni espediente per rimandare il processo affinchè sopraggiunga la prescrizione ed il processo non si celebri affatto o produca sentenza farlocche (come quella che ha ritenuto Andreotti responsabile dei fatti addebitatigli ma che lo ha assolto perchè il reato era stato commesso troppi anni addietro).
Assurdo poi considerare il Pubblico Ministero, così come lo ha definito il signor Berlusconi, avvocato dell'accusa: in Italia il Pubblico Ministero non deve punire chi è innocente ma deve cercare la verità, chiedendo lui stesso, quando lo ritiene, l'assoluzione dell'imputato. Il suo è un ruolo di garanzia. E' per tale motivo che appartiene allo stesso ordine del magistrato giudicante. Entrambi debbono cercare la verità. Sarebbe, pertanto, fonte di grave insicurezza sociale avere Pubblici Ministeri pagati per punire. Mi auguro che questa sciocchezza riprenda la strada dalla quale è venuta.


 

mercoledì 27 ottobre 2010

CI SEPARIAMO. E ORA COME LO DICIAMO AI NOSTRI FIGLI?


Segnalo l'iniziativa che mi vede coinvolto insieme alla dott.ssa Luisa Gatto, psicologa specializzata in psicologia giudiziaria. Si tratta di un incontro rivolto a genitori che stanno per intraprendere la strada (quantomai dolorosa e difficile) della separazione. Questo incontro, che si svolgerà nel mio studio di Carate Brianza via Donizetti n. 2 il giorno 16 novembre alle ore 20.30, cercherà di dare risposte di tipo psicologico e giuridicoIMG a domande riguardanti il modo più corretto di affrontare una separazione in presenza di figli minori. Invito tutti gli interessati a contattare la dott.ssa Gatto al numero 3495295586 o all'indirizzo luisa.gatto@gmail.com per ogni informazione.
A lato e qui sotto in formato pdf la locandina dell'evento.

locandina convegno
 






 

martedì 26 ottobre 2010

L'ADULTERIO DEL CONIUGE NON E' CONDIZIONE SUFFICIENTE PER DETERMINARE LA COLPA NELLA SEPARAZIONE


La Corte di Cassazione con la sentenza n. 21245/2010, ha evidenziato che la violazione del reciproco dovere di fedeltà (art. 143 c.c.) non legittima di per sé, automaticamente, la pronunzia di separazione con addebito al coniuge adultero, ma solo se abbia reso intollerabile la prosecuzione della convivenza o recato grave pregiudizio all’educazione della prole; pertanto il giudice del merito deve controllare l’oggettivo verificarsi di tali conseguenze, valutando, con apprezzamento incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato, in quale misura la violazione di quel dovere abbia inciso sulla vita familiare, tenuto conto delle modalità e frequenze dei fatti, del tipo di ambiente in cui si sono verificati e della sensibilità morale dei soggetti interessati.
In parole povere, se un coniuge tradisce in una fase successiva a quella durante la quale si è creata una frattura insanabile del rapporto matrimoniale e questa frattura è ascrivibile al comportamento di entrambi i coniugi, colui o colei che ha tradito non può essere considerato esclusivamente responsabile del naufragio dell'unione.
La violazione del dovere di fedeltà (inteso non solo come impegno, ricadente su ciascun coniuge, di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale fra i coniugi, ma anche come impegno di non tradire la fiducia reciproca) può essere causa esclusiva dell’addebito della separazione solo quando si accerti, in fatto, che a quella violazione risale la crisi dell’unione.

giovedì 21 ottobre 2010

LA DETERMINAZIONE DELL'ASSEGNO DI MANTENIMENTO IN FAVORE DEI FIGLI


L'articolo 155 c.c. al 4° comma dispone che "ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del/i figlio/i; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore".
Dunque, i genitori debbono provvedere al mantenimento dei figli, innanzitutto, in maniera proporzionale al proprio reddito: ciò significa che se un genitore ha un reddito pari a 2000 euro mensili e l'altro ha un reddito pari a 1000 euro mensili, immaginando che il figlio necessiti di un mantenimento pari ad euro 600 mensili, il genitore col reddito più alto contrbuirà con la somma di 400 euro, l'altro genitore con la somma di 200 euro (400 sta a 2000 come 200 sta a 1000).
Una volta risolto il problema della proporzione in base alla quale ciascun genitore deve contribuire al mantenimento del figlio (o dei figli), occorre stabilire in concreto l'entità del mantenimento, così da stabilire anche, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico da genitore all'altro, al fine di realizzare il principio di proporzionalità.
A questo punto, vengono in rilievo i 5 criteri stabiliti dal codice. Il mantenimento dovuto al figlio da parte dei genitori deve essere commisurato alle esigenze del figlio (le quali possono essere le più varie, comprendendo, ad esempio, costose cure mediche particolari). Poi, occorre fare riferimento al tenore di vita del figlio quando viveva con entrambi i genitori: la separazione dei genitori non può e non deve essere motivo di peggioramento delle condizioni di vita del figlio. Inoltre, deve essere considerato il tempo per il quale il figlio rimane presso l'uno o l'altro genitore: a seconda di esso è naturale che chi tiene con sè maggiormente il figlio sostenga delle spese superiori che gli debbono essere riconosciute. Fondamentale, poi, è considerare le risorse economiche di entrambi i genitori: se uno dei genitori è nell'impossibilità (non dovuta a colpa ma, per esempio, a grave malattia) di contribuire al mantenimento del figlio, non può essere chiamato a spendere somme di cui non dispone; viceversa, il genitore facoltoso non può sottrarsi dal corrispondere un mantenimento proporzionato alle proprie sostanze. Si badi bene, inoltre, che le risorse economiche non possono essere valutate anche alla luce delle scelte sbagliate di ciascun genitore (vedasi, ad esempio, la sottoscrizione di un affitto troppo oneroso). Infine, deve essere valutata economicamente la cura che ciascun genitore assume nei confronti del figlio.

mercoledì 20 ottobre 2010

CONTRATTO DI LOCAZIONE: LA DISDETTA DEL CONDUTTORE


La legge n. 431/1998 costituisce la normativa fondamentale in tema di contratti di locazione. Questa legge disciplina in maniera analitica la durata minima del contratto di locazione, le modalità di stipula e di rinnovo dell'accordo e la disdetta da parte del locatore. La disciplina della disdetta da parte del conduttore occupa, invece, uno spazio ridottismo, limitato ad un solo comma di un articolo. Ciò, forse, perchè nella concezione del legislatore (che per vero, non è poi così lontana dalla realtà dei fatti) la posizione del locatore è di supremazia rispetto a quella del conduttore e, dunque, si intende disciplinarne lo svolgimento nel pieno rispetto dei diritti della parte più debole, il conduttore appunto.
Tuttavia, non sono infrequenti gli abusi che il locatario si trova a potere porre in atto nei confronti del locatore, sicchè è bene chiarire che anche il cosiddetto inquilino è parte di un contratto e, per tale ragione, deve comportarsi con corretteza e secondo buona fede. E ciò assume spesso un ruolo molto importante in sede disdetta del contratto di locazione.
E' prassi comune, infatti, quella secondo la quale il conduttore che intende abbandonare i locali prima della naturale scadenza del contratto, si limiti ad inviare al locatore una lettera di disdetta senza specificarne i motivi.
In realtà, se il conduttore non comunica tramite raccomandata i gravi motivi oggettivi per i quali lascia la casa in anticipo, il proprietario potrebbe pretendere il pagamento dei canoni fino alla scadenza del contratto.
Infatti, l'articolo 3 comma 6 della Legge 431/98 dispone che "il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, può recedere in qualsiasi momento dal contratto, dando comunicazione al locatore con preavviso di sei mesi."  La facoltà di recesso anticipato è, quindi, consentita al conduttore quando sussistono gravi motivi oggettivi, determinati da fatti sopravvenuti, non prevedibili normalmente. Il conduttore ha l’onere di specificare al locatore i gravi motivi che lo inducono a recedere dal contratto.
Naturalmente è nel diritto del locatore contestare il recesso per la mancata comunicazione o per l’insussistenza dei gravi motivi (Cassazione, 10 dicembre 1996, n. 10980).
Se invece il conduttore non comunica i "gravi" motivi e nel contratto non è presente una clausola per la quale il conduttore può recedere liberamente e indipendentemente dai gravi motivi, il locatore può pretendere il pagamento dei canoni sino alla scadenza del contratto.


 



lunedì 18 ottobre 2010

CAUSE DI LAVORO: RIVOLGERSI AD UN AVVOCATO FIDATO PIUTTOSTO CHE AD UN SINDACATO


Navigando in internet mi imbatto spesso in argomenti di diritto del lavoro. In un periodo di crisi economica come questa vi sono purtroppo molti licenziamenti e i poveri lavoratori si vedono costretti sempre più spesso a dovere aprire una vertenza con il proprio ex datore di lavoro.
Al riguardo, basta digitare, in un motore di ricerca qualsiasi, le parole "licenziamento" e "vertenza" (o causa) perchè immediatamente compaiano come risultati le associazioni sindacali. Per carità, legittimo che i sindacati svolgano il proprio lavoro in difesa dei lavoratori, in difesa dei diritti (spesso negati) che circondano il mondo del lavoro; ho sempre reputato (e continuo a farlo) le associazioni sindacali come uno dei baluardi costituzionalemente garantiti a difesa del lavoro e dei lavoratori.
Tuttavia, negli ultimi tempi si è perso di vista un principio fondamentale: ossia quello secondo il quale ogni cittadino ha diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi (art. 24 Cost.) e che il patrocinio di chi intende rivolgersi alla giustizia è affidato in maniera esclusiva alla categoria professionale alla quale appartengo, l'avvocatura.
E' solo l'avvocato che ha la competenza necessaria per consigliare al meglio una persona sulla strategia migliore da adottare in casi di vertenze lavorative.
Non per portare acqua al mio mulino, dato che sono un avvocato, ma quando un lavoratore vuole (per qulasiasi ragione) intraprendere una vertenza con il datore di lavoro, dovrebbe (a mio modo di vedere) rivolgersi ad un bravo avvocato e a nessun altro. I sindacati, infatti, si appoggiano ad avvocati, sottoscrivendo con essi accordi di natura economica che portano profitti ad entrambi: tuttavia, non è affatto detto che l'avvocato scelto dal sindacato sia il migliore o il più competente o magari semplicemente il più adatto alle esigenze di quel lavoratore. 
Io sostengo sempre che la scelta di chi ci rappresenta in giudizio deve sempre essere una scelta personale: ciascuno di noi deve decidere autonomamente l'avvocato che ci rappresenta in giudizio, avendo innanzitutto un primo incontro conoscitivo, ricevendo un suo parere sulla questione e poi (se si è convinti) conferendogli il mandato.

giovedì 14 ottobre 2010

SFRATTO PER FINITA LOCAZIONE


A norma di legge (n.431/98), le parti possono stipulare contratti di locazione di durata non inferiore a quattro anni, decorsi i quali i contratti sono rinnovati per un periodo di quattro anni.
Alla seconda scadenza del contratto (dunque dopo 8 anni di durata del contratto), ciascuna delle parti ha diritto di attivare la procedura per il rinnovo a nuove condizioni o per la rinuncia al rinnovo del contratto, comunicando la propria intenzione con lettera raccomandata da inviare all'altra parte almeno sei mesi prima della scadenza.
Il proprietario ha, dunque,  facoltà di comunicare la mancata rinnovazione del contratto con lettera raccomandata entro 6 mesi dalla naturale scadenza del contratto stesso.
La parte interpellata deve rispondere a mezzo lettera raccomandata entro sessanta giorni dalla data di ricezione della raccomandata di cui al secondo periodo. In mancanza di risposta o di accordo il contratto si intenderà scaduto alla data di cessazione della locazione. In mancanza della comunicazione di cui al secondo periodo il contratto è rinnovato tacitamente alle medesime condizioni.
In ogni caso, il locatore, dopo avere inviato la disdetta rispettando il termine di sei mesi fissato dalla legge, ha facoltà di domandare, anche prima della scadenza del contratto, la licenza di finita locazione (art. 657 c.p.c.) con la contestuale citazione per la convalida.
Spesso questa procedura giudiziale si rende necessaria poichè l'inquilino decide di non abbandonare liberamente i locali. Dunque, col patrocinio di un avvocato, il locatore formula la citazione a giudizio per fare dichiarare finita la locazione dal Tribunale.
All'udienza il giudice fissa un termine (attenzione, però, questo termine è ovviamente successivo alla scadenza del contratto) entro il quale il locatario deve abbandonare l'immobile.
Ma spesso capita che anche tale termine trascorra invano, sicchè il locatore deve notificare il cosiddetto preavviso di sloggio, intimando al locatario di liberare i locali, pena l'inizio dell'esecuzione forzata. Se anche il preavviso di sloggio non produce i propri effetti, il locatore (sempre col patrocinio di un avvocato) può domandare l'intervento dell'ufficiale giudiziario.
Tuttavia, anche l'intervento dell'ufficiale può risultare insufficiente laddove il locatario non abbandoni spontaneamente l'immobile. Occorre, dunque, domandare l'intervento della forza pubblica. L'ufficiale giudiziario, munito del titolo esecutivo (ossia il provvedimento del giudice), si reca nuovamente presso i locali occupati dall'inquilino e con l'assistenza di polizia o carabinieri provvede ad immettere con la forza il locatore nei locali di sua proprietà.

mercoledì 13 ottobre 2010

L'UTILIZZATORE DELL'AUTO IN LEASING E' LEGITTIMATO A CHIEDERE I DANNI ALLA CONTROPARTE IN CASO DI SINISTRO


Anche l'utilizzatore di un auto in leasing è legittimato a chiedere i danni alla controparte in caso di sinistro stradale. Lo ha affermato la terza sezione civile della Cassazione con la sentenza 21011/2010 secondo la quale il detentore di una cosa altrui, come l'utilizzatore di un auto in leasing, danneggiata dal fatto illecito del terzo, è legittimato a domandare il risarcimento dimostrando solo la sussistenza del titolo in virtù del quale è tenuto a tenere indenne il proprietario. Nel caso in esame, però, ha concluso la Corte, la legittimazione è ancor più certa dal momento che il danneggiato ha anche prodotto una lettera che lo autorizzava espressamente a richiedere il risarcimento del danno al propietario dell'altro autoveicolo coinvolto nel sinistro.

martedì 12 ottobre 2010

DIVORZIO E PERMESSO DI SOGGIORNO


Il divorzio non fa venir meno il permesso di soggiorno. Lo ha stabilito la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, con l'ordinanza 20 settembre 2010, n. 19893 con la quale si precisa come, ai sensi del Decreto legislativo n. 30 del 2007, divorzio e annullamento del matrimonio con un cittadino dell'Unione "non comportano la perdita del diritto di soggiorno dei familiari del cittadini dell'Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, a condizione che il matrimonio sia durato almeno 3 anni, di cui almeno un anno nel territorio nazionale, prima dell'inizio del procedimento di divorzio o di annullamento".
Gli ermellini accolgono, così, il ricorso presentato da una donna ecuadoriana, sposata dal 1999 con un cittadino italiano, avverso la decisione con cui la Corte d'appello di Genova aveva convalidato, nei suoi confronti, il decreto di espulsione sul presupposto che, essendo ormai divorziata, aveva perso il diritto al rinnovo del permesso di soggiorno.

lunedì 11 ottobre 2010

L'OBBLIGO DEL GENITORE DI MANTENERE IL FIGLIO NON CESSA COL RAGGIUNGIMENTO DELLA MAGGIORE ETA'


Il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio non esonera affatto il genitore dall'obbligo sancito per legge di mantenere, istruire ed educare la prole ai sensi dell'art. 147 c.c.
A riprova di ciò, la legge n. 54/2006, introducendo l’art. 155 quinquies c.c., ha disposto specificamente la possibilità per il giudice, in sede di separazione o divorzio, di riconoscere ai figli maggiorenni “non indipendenti economicamente” un assegno di mantenimento periodico.
Già in precedenza, tuttavia, la giurisprudenza costantemente riconosceva detto diritto sulla base del combinato disposto degli artt. 30 Cost., 147 e 148 c.c. La legge n. 54/06, quindi, non ha modificato gli obblighi parentali di cui alle precedenti disposizioni. Sicché è tuttora un dovere del genitore contribuire al mantenimento dei figli anche oltre la maggiore età e finché questi non abbiano conseguito l’indipendenza economica.
Questo concetto è stato più volte esplicitato dalla Corte di Cassazione, la quale con la sentenza n. 8868/1998 ha avuto occasione di ribadire "il principio generale di tutela della prole, desumibile da varie norme dell'ordinamento (art. 30 Cost., art. 147, 148, 155 c.c., art. 6 legge 898/70) che porta ad assimilare la posizione del figlio divenuto maggiorenne, ma tuttora dipendente (non per sua colpa) dai genitori, a quella del figlio minore, e che impone di ravvisare la protrazione dell'obbligo di mantenimento, oltre che di educazione e di istruzione, fino al momento in cui il figlio stesso abbia raggiunto una propria indipendenza economica".

venerdì 8 ottobre 2010

LE DIMISSIONI VOLONTARIE DEL BENEFICIARIO POSSONO COSTITUIRE GIUSTIFICATO MOTIVO DI MODIFICA DELL'ASSEGNO DIVORZILE


L'articolo 9 della legge sul divorzio (legge 898/70) prevede che, dopo la pronuncia del divorzio, le condizioni stabilite possano essere modificate dal Tribunale, qualora sopravvengano "giustificati motivi". Dunque, non può essere chiesta una nuova sentenza di divorzio, bensì può essere domandata la modifica delle condizioni stabilite dalla sentenza già passata in giudicato.
I motivi sopravvenuti che giustificano la revisione delle condizioni economiche del divorzio - quelle relative all'assegno di divorzio e/o all'assegno di mantenimento dei figli - consistono nel mutamento delle condizioni economiche degli ex coniugi.
E, certamente, determina un mutamento delle condizioni economiche il licenziamento, il pensionamento o le dimissioni volontarie di uno degli ex coniugi. Ma se, per quanto riguarda il licenziamento da parte del datore di lavoro, risulta assolutamente ovvio e conforme ad ogni principio di diritto del nostro ordinamento che il beneficiario dell'assegno di divorzio, subendo un peggioramento delle proprie capacità economiche, abbia diritto ad un adeguamento del sostentamento fornito dall'ex coniuge, molti dubbi sono stati avanzati circa la possibilità che un eguale diritto spetti anche al beneficiario che volontariamente abbandona il posto di lavoro, vuoi per un pensionamento volontario, vuoi per dimissioni volontarie.
A tale riguardo, la Corte di Cassazione ha affermato che anche il pensionamento volontario (equiparabile alle dimissioni volontarie) può benissimo costituire un giustificato motivo di revisione delle statuizioni giudiziali concernenti il “contributo” mensile (vedasi a tale proposito la sentenza Cassazione civ., Sez. I, 3 agosto 2007, n. 17041).

 

venerdì 1 ottobre 2010

SULL'AFFIDO CONDIVISO


L'art. 155 c.c stabilisce che "anche in caso di separazione dei genitori il figlio minore ha diritto di mantenere un rapporto equlibrato e continuativo con ciascuno di essi, di riceverne cura, educazione e istruzione da entrambi".
Dunque, la legge pone al centro dell'attenzione il figlio minore: è lui che, data la situazione potenzialmente lesiva, deve ricevere le maggiori attenzioni da parte della legge. E per tale ragione il succitato articolo sottolinea il diritto del figlio di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi i genitori separati.
Continua l'art. 155 c.c.: "per realizzare questa finalità, il giudice che pronuncia la separazione adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di essa. Il giudice valuta prioritariamente la possibilità che i figli restino affidati a entrambi i genitori". Infatti, il primo compito del giudice è quello di assicurarsi che il figlio possa essere affidato ad entrambi i genitori, perseguendo così l'interesse del minore a conservare un rapporto equlibrato con mamma e papà.
Quando il giudice stabilisce l'affidamento condiviso determina i tempi e le modalità della presenza del minore presso ciascun genitore.
E' possibile che, all'interno di un affidamento condiviso, uno dei due genitori si renda responsabile di inadempienze più o meno gravi. Ad esempio, la Cassazione con sentenza n 26587 ha sancito la perdita dell'affido condiviso di un padre che non aveva mai versato il contributo al mantenimento a favore della propria prole.
Ma vi sono anche inadempienze meno gravi, piccoli dispetti che si commettono soprattutto per danneggiare l'ex coniuge ma che finiscono per recare maggiori danni ai figli. Su questi, purtroppo, occorrerebbe solo il buon senso genitoriale.
Infatti, l'art. 709 ter c.p.c. prevede che in caso di gravi (sottolineo gravi) inadempienze o di atti che arrechino pregiudizio al minore o ostacolino le modalità di esecuzione dell'affido condiviso, il giudice può: 1) ammonire il genitore inadempiente; 2) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione pecuniaria ; 3) disporre il risarcimento del danno a carico del genitore inadempiente ed in favore del minore e dell'altro genitore.
Tuttavia, queste ipotesi sanzionatorie richiedono comportamenti particolarmente gravi e lesivi dell'interesse del minore.
Alcuni genitori (soprattutto i padri) sono tentati, in tali circostanze di rinunciare all'affido condiviso in favore dell'affido esclusivo alla madre pur di vedere più tutelati i propri diritti. Ma certamente questa soluzione (se così si può chiamare) peggiora solamente le cose. Infatti, in linea teorica, il giudice può perfettamente modificare un affidamento condiviso, trasformandolo in affido esclusivo su richiesta delle parti (qualora tale accordo non contrasti con l'interesse del figlio). E l'affido esclusivo non tocca minimamente il diritto/dovere di entrambi i genitori di provvedere ad educare, istruire e curare lo sviluppo del figlio minore. Tuttavia, l'affido esclusivo incide in maniera sensibile sulle occasioni di incontro tra la prole e il genitore non affidatario.
Pertanto, il mio consiglio è sempre quello di cercare una soluzione mediata e di buon senso tra i genitori i quali devono (dovrebbero) sempre ricordarsi che l'interesse che deve essere maggiormente tutelato è quello del figlio minore.