La Corte di Cassazione, con la sentenza 22 settembre – 22 dicembre2015, n. 25767 ha affrontato il tema della responsabilità medica da nascita indesiderata,
giungendo a porre importanti punti fermi riguardo ad una questione così
delicata.
Il caso in questione riguardava
una signora che, dopo aver partorito la figlia risultata affetta da
sindrome di Down, aveva citato in giudizio il primario del laboratorio
delle analisi chimiche microbiologiche dell'ospedale, esponendo di avere eseguito
esami ematochimici a scopo di indagine diagnostica prenatale, proprio al fine
di identificare tale eventuale patologia, e che, ciononostante, il
primario aveva inviato la paziente al parto, omettendo colposamente ulteriori
approfondimenti, i quali sarebbero invece stati necessari alla luce dei valori
non corretti risultanti dagli esami.
Vediamo l'iter seguito dalla Corte per
arrivare alla propria decisione.
Il punto di partenza del ragionamento della Cassazione è stato
rappresentato dall'interpretazione della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme
per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria di
gravidanza), che ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità legale di
ricorrere all'aborto, legittimando l'autodeterminazione della donna a tutela
della sua salute, e non solo della sua vita, pur nel rispetto di condizioni
rigorose, espressione di un bilanciamento di esigenze di primaria rilevanza.
Secondo la Suprema Corte il diritto a ricorrere all'interruzione di gravidanza non deve
essere considerato quale uno strumento di programmazione familiare né un mezzo
di controllo delle nascite; tantomeno gli si può attribuire una funzione
eugenica. Ciò in considerazione del fatto che l’art. 1 della predetta
legge afferma che "lo Stato
garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il
valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio.
L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è
mezzo per il controllo delle nascite”.
E’ in questa cornice normativa che deve
essere analizzato il problema del riparto dell'onere della prova in tema di
risarcimento dei danni richiesto da nascita indesiderata.
L'impossibilità della scelta della madre,
imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante, è certamente
fonte di responsabilità civile. Tuttavia dev'essere provata la volontà
della donna di non portare a termine la gravidanza e tale onere probatorio
incombe sulla gestante.
E’
importante notare che, al riguardo, la prova verte su un fatto psichico: e cioè, su uno stato
psicologico, un'intenzione, un atteggiamento volitivo della donna, che la legge
considera rilevanti.
La Suprema Corte afferma, allora, un
principio importante: in tal caso, l'onere probatorio, vertendo su un'ipotesi,
e non su un fatto storico, può essere assolto tramite la dimostrazione di altre
circostanze, dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva,
all'esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare. Così, circostanze
contingenti, eventualmente anche atipiche, quali, ad esempio, il ricorso al
consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro
oppure pregresse manifestazioni di pensiero sintomatiche di una propensione
all'opzione abortiva in caso di grave malformazione del feto, possono condurre
a ritenere assolto l’onere probatorio circa la volontà abortiva.
Il secondo problema (probabilmente il
più delicato ed il più controverso) affrontato dalla Corte di Cassazione nel
trattare il caso in questione riguardava la qualificazione del diritto del
figlio, affetto dalla sindrome di Down, al risarcimento del danno per
l'impossibilità di un'esistenza sana e dignitosa.
In questo
caso il punto di partenza del ragionamento della Cassazione è stato
rappresentato dall’interpretazione
della legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico (in
ipotesi, antigiuridica), non era ancora soggetto di diritto, alla luce del
principio consacrato all'art.1 cod. civ. ("la capacità giuridica si acquista
dal momento della nascita"). In realtà, tale argomento, che parrebbe preclusivo,
non si palesa, peraltro, insuperabile; e di fatto è stato superato da
quella giurisprudenza di legittimità che ha opposto che il diritto al
risarcimento, originato da fatto anteriore alla nascita, diventa attuale ed
azionabile dopo la nascita del soggetto. La Cassazione propende, quindi,
per l'ammissibilità dell'azione del minore, volta al risarcimento di un danno
che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione; tale tesi, del resto,
neppure collide con la teoria della causalità, posto che è ben possibile che
tra causa ed evento lesivo intercorra una cesura spazio-temporale.
Se, dunque, l'astratta riconoscibilità della titolarità di un
diritto (oltre che della legittimazione attiva) del figlio portatore di
handicap non trova un ostacolo insormontabile nell'anteriorità del fatto
illecito alla nascita, giacché si può essere destinatari di tutela anche senza
essere soggetti dotati di capacità giuridica ai sensi dell'art.1 cod. civile,
occorre scrutinare a fondo il contenuto stesso del diritto che si assume leso
ed il rapporto di causalità tra condotta del medico ed evento di danno.
Tuttavia,
in questo caso il danno
(consistito nella carenza informativa da parte del medico curante che non ha
permesso alla gestante di potere decidere di abortire) è indissolubilmente
legato alla stessa vita del bambino; e l'assenza di danno sarebbe stata indissolubilmente
legata alla sua morte.
Conseguentemente, secondo la Corte di Cassazione il supposto
interesse a non nascere mette in scacco il concetto stesso di danno. Tanto più
che di esso si farebbero interpreti unilaterali i genitori nell'attribuire alla
volontà dei nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia; come tale,
indegna di essere vissuta (quasi un corollario estremo dei cosiddetto diritto
alla felicità).
L'ordinamento non riconosce, per contro, il diritto alla non vita: cosa diversa dal cosiddetto diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico). L'accostamento, non infrequente, tra le due fattispecie è fallace; oltre a non tener conto dei limiti connaturali al ragionamento analogico, soprattutto in tema di norme eccezionali. La Cassazione, in definitiva, afferma che il nostro ordinamento non conosce il "diritto a non nascere se non sano", né la vita del bambino può integrare un danno-conseguenza dell'illecito omissivo del medico.
L'ordinamento non riconosce, per contro, il diritto alla non vita: cosa diversa dal cosiddetto diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico). L'accostamento, non infrequente, tra le due fattispecie è fallace; oltre a non tener conto dei limiti connaturali al ragionamento analogico, soprattutto in tema di norme eccezionali. La Cassazione, in definitiva, afferma che il nostro ordinamento non conosce il "diritto a non nascere se non sano", né la vita del bambino può integrare un danno-conseguenza dell'illecito omissivo del medico.
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