giovedì 21 gennaio 2016

L'ORDINAMENTO NON CONOSCE IL DIRITTO A NON NASCERE SE NON SANO

La Corte di Cassazione, con la sentenza 22 settembre – 22 dicembre2015, n. 25767 ha affrontato il tema della responsabilità medica da nascita indesiderata, giungendo a porre importanti punti fermi riguardo ad una questione così delicata.
Il caso in questione riguardava una signora che, dopo aver partorito la figlia risultata affetta da sindrome di Down, aveva citato in giudizio il primario del laboratorio delle analisi chimiche microbiologiche dell'ospedale, esponendo di avere eseguito esami ematochimici a scopo di indagine diagnostica prenatale, proprio al fine di identificare tale eventuale patologia, e che, ciononostante, il primario aveva inviato la paziente al parto, omettendo colposamente ulteriori approfondimenti, i quali sarebbero invece stati necessari alla luce dei valori non corretti risultanti dagli esami.
Vediamo l'iter seguito dalla Corte per arrivare alla propria decisione.
Il punto di partenza del ragionamento della Cassazione è stato rappresentato dall'interpretazione della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria di gravidanza), che ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità legale di ricorrere all'aborto, legittimando l'autodeterminazione della donna a tutela della sua salute, e non solo della sua vita, pur nel rispetto di condizioni rigorose, espressione di un bilanciamento di esigenze di primaria rilevanza.
Secondo la Suprema Corte il diritto a ricorrere all'interruzione di gravidanza non deve essere considerato quale uno strumento di programmazione familiare né un mezzo di controllo delle nascite; tantomeno gli si può attribuire una funzione eugenica. Ciò in considerazione del fatto che l’art. 1 della predetta legge afferma che "lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite”. 
E’ in questa cornice normativa che deve essere analizzato il problema del riparto dell'onere della prova in tema di risarcimento dei danni richiesto da nascita indesiderata.
L'impossibilità della scelta della madre, imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante, è certamente fonte di responsabilità civile. Tuttavia dev'essere provata la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza e tale onere probatorio incombe sulla gestante.
E’ importante notare che, al riguardo, la prova verte su un fatto psichico: e cioè, su uno stato psicologico, un'intenzione, un atteggiamento volitivo della donna, che la legge considera rilevanti.
La Suprema Corte afferma, allora, un principio importante: in tal caso, l'onere probatorio, vertendo su un'ipotesi, e non su un fatto storico, può essere assolto tramite la dimostrazione di altre circostanze, dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all'esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare. Così, circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche, quali, ad esempio, il ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro oppure pregresse manifestazioni di pensiero sintomatiche di una propensione all'opzione abortiva in caso di grave malformazione del feto, possono condurre a ritenere assolto l’onere probatorio circa la volontà abortiva.
Il secondo problema (probabilmente il più delicato ed il più controverso) affrontato dalla Corte di Cassazione nel trattare il caso in questione riguardava la qualificazione del diritto del figlio, affetto dalla sindrome di Down, al risarcimento del danno per l'impossibilità di un'esistenza sana e dignitosa.
In questo caso il punto di partenza del ragionamento della Cassazione è stato rappresentato dall’interpretazione della legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico (in ipotesi, antigiuridica), non era ancora soggetto di diritto, alla luce del principio consacrato all'art.1 cod. civ. ("la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita"). In realtà, tale argomento, che parrebbe preclusivo, non si palesa, peraltro, insuperabile; e di fatto è stato superato da quella giurisprudenza di legittimità che ha opposto che il diritto al risarcimento, originato da fatto anteriore alla nascita, diventa attuale ed azionabile dopo la nascita del soggetto. La Cassazione propende, quindi, per l'ammissibilità dell'azione del minore, volta al risarcimento di un danno che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione; tale tesi, del resto, neppure collide con la teoria della causalità, posto che è ben possibile che tra causa ed evento lesivo intercorra una cesura spazio-temporale.
Se, dunque, l'astratta riconoscibilità della titolarità di un diritto (oltre che della legittimazione attiva) del figlio portatore di handicap non trova un ostacolo insormontabile nell'anteriorità del fatto illecito alla nascita, giacché si può essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti dotati di capacità giuridica ai sensi dell'art.1 cod. civile, occorre scrutinare a fondo il contenuto stesso del diritto che si assume leso ed il rapporto di causalità tra condotta del medico ed evento di danno.
Tuttavia, in questo caso il danno (consistito nella carenza informativa da parte del medico curante che non ha permesso alla gestante di potere decidere di abortire) è indissolubilmente legato alla stessa vita del bambino; e l'assenza di danno sarebbe stata indissolubilmente legata alla sua morte.
Conseguentemente, secondo la Corte di Cassazione il supposto interesse a non nascere mette in scacco il concetto stesso di danno. Tanto più che di esso si farebbero interpreti unilaterali i genitori nell'attribuire alla volontà dei nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia; come tale, indegna di essere vissuta (quasi un corollario estremo dei cosiddetto diritto alla felicità). 
L'ordinamento non riconosce, per contro, il diritto alla non vita: cosa diversa dal cosiddetto diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico). L'accostamento, non infrequente, tra le due fattispecie è fallace; oltre a non tener conto dei limiti connaturali al ragionamento analogico, soprattutto in tema di norme eccezionali. La Cassazione, in definitiva, afferma che il nostro ordinamento non conosce il "diritto a non nascere se non sano", né la vita del bambino può integrare un danno-conseguenza dell'illecito omissivo del medico.

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