La Corte di Cassazione con la sentenza del 23 maggio 2014, n. 11522 ha affrontato il delicato tema della responsabilità medica conseguente ad una omessa diagnosi di una malattia incurabile. Il concetto fondamentale dal quale è scaturita la summenzionata decisione consiste nella cosiddetta perdita di chance: si è valutato in
particolare l’aspetto inerente alla possibilità che, laddove la diagnosi fosse
stata correttamente effettuata, il paziente avrebbe avuto qualche possibilità in
più di sopravvivere alla malattia o, quanto meno, di patire minori sofferenze. Nel caso trattato l'omessa diagnosi di una malattia terminale, sulla quale sarebbe stato possibile
intervenire soltanto con un intervento cosiddetto palliativo, non idoneo a
guarire ma quanto meno ad alleviare le sofferenze, ha determinato un danno al
paziente che nelle more non ha potuto fruire nemmeno delle cure palliative e ha dovuto sopportare le conseguenze peggiori determinate dalla malattia non diagnosticata.
Il paziente in questione era in ospedale per un intervento al ginocchio: durante le dovute indagini mediche precedenti l'intervento stesso, l'ortopedico faceva eseguire una TAC toracica dalla quale risultava la presenza di una massa tumorale; nonostante ciò, l'ortopedico proseguiva con il suo lavoro, operando il ginocchio del paziente e successivamente dimettendolo dall'ospedale senza disporre ulteriori indagini relativamente alla massa tumorale presente nei polmoni.
Dopo pochi mesi il paziente peggiorava e moriva.
Gli eredi intentavano causa al medico che non aveva tempestivamente diagnosticato il male. Tuttavia, in primo ed in secondo grado la giustizia dava ragione al medico, il quale si era difeso affermando che durante il processo non era stato possibile accertare, tramite apposita CTU, né la sussistenza di un
qualche rapporto tra l'intervento al ginocchio ed il crollo delle condizioni del
paziente, né se la tempestiva diagnosi avrebbe permesso di sottoporre il
paziente a cure tali da evitarne il decesso.
La Corte di Cassazione, con la citata sentenza, ha ribaltato tale decisione affermando che "l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, anche se si
tratta di un male incurabile e sul quale sia possibile intervenire soltanto
con un intervento palliativo, determinando un ritardo della possibilità
di esecuzione di tale intervento, cagiona al paziente un danno alla
persona per il fatto che nelle more egli non ha
potuto fruire di tale intervento e, quindi, ha dovuto sopportare le conseguenze
del processo morboso e particolarmente il dolore, posto che la tempestiva
esecuzione dell'intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza la
risoluzione del processo morboso, alleviare le sue sofferenze".
Dunque, anche a
fronte di una malattia terminale ed inguaribile, l'omessa diagnosi oppure la diagnosi non tempestiva cagiona comunque
al paziente un danno alla propria persona, per il semplice fatto che è stato costretto a dover sopportare per intero le gravissime conseguenze della malattia stessa, con le relative sofferenze, le quali avrebbero potuto essere quanto meno
alleviate.
Nel caso trattato ciò ha comportato un“danno da perdita di chances”, ossia la mancata possibilità (la chance,
appunto) di vivere meglio e più a lungo durante il decorso della malattia,
grazie alle cure palliative.