martedì 14 maggio 2013

COPPIE DI FATTO: IL CONVIVENTE NON PUO' ESSERE OBBLIGATO A LASCIARE LA CASA SENZA UN CONGRUO TERMINE PER TROVARE UNA NUOVA ABITAZIONE

Interessantissima sentenza della Corte di Cassazione in tema di coppie di fatto e di crescenti tutele ad esse riservate dalla giurisprudenza.
Con la pronuncia 21 marzo 2013 n. 7214, infatti, la Suprema Corte ha affermato un principio destinato ad avere ripercussioni importantissime nel panorama giuridico italiano: "la famiglia di fatto è compresa tra le formazioni sociali che l'art. 2 della Costituzione considera la sede di svolgimento della personalità individuale" e, pertanto, "il convivente gode della casa familiare, di proprietà del compagno o della compagna, per soddisfare un interesse proprio, oltre che della coppia, sulla base di un titolo a contenuto e matrice personale la cui rilevanza sul piano della giuridicità è custodita dalla Costituzione, sì da assumere i connotati tipici della detenzione qualificata".
Secondo la Corte "la convivenza more uxorio determina, sulla casa di abitazione ovi si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su un interesse proprio ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità; conseguentemente, l'estromissione violenta o clandestina del convivente dall'unità abitativa, compiuta dal partner, giustifica il ricorso alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l'azione di spoglio nei confronti dell'altro quand'anche il primo non vanti un diritto di proprietà sull'immobile che, durante la convivenza, sia stato nella disponibilità di entrambi".
In parole povera la Cassazione dice che il convivente non è un "ospite" e che dunque non può essere messo alla porta all'improvviso.
D’altra parte, l’assenza di un giudice della dissoluzione del ménage non consente al convivente proprietario di ricorrere alle vie di fatto per estromettere l’altro dall’abitazione, perché il canone della buona fede e della correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, impone al legittimo titolare che, cessata l’affectio, intenda recuperare, com’è suo diritto, l’esclusiva disponibilità dell’immobile, di avvisare il partner e di concedergli un termine congruo per reperire altra sistemazione

venerdì 10 maggio 2013

L'OBBLIGO DEL MANTENIMENTO NON CESSA COL RAGGIUNGIMENTO DELLA MAGGIORE ETA' DEL FIGLIO

La Corte di Cassazione, con la sentenza 11020/2013, ha confermato il proprio ormai consolidato orientamento secondo il quale "l’obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli secondo le regole dell’art. 148 cod. civ, non cessa, ‘ipso facto’, con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell’obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero che il mancato svolgimento di un’attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato dello stesso, il cui accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post - universitario del soggetto ed alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione”.
La Suprema Corte ha, perciò, confermato l'obbligo di mantenimento da parte del padre nei confronti del figlio, anche se questi abbia superato i trenta anni di età, ma non abbia raggiunto una propria autosufficienza economica per ragioni a lui non imputabili. Nel caso di specie il figlio aveva lavorato solo per un breve periodo di tempo con retribuzione “irrilevante” (sei mesi di tirocinio in Spagna, con rimborso spese di complessivi 3000 euro e tre mesi di collaborazione con cliniche private, con un compenso di euro 7,00 per ora), e doveva ancora frequentare la scuola di specializzazione.

giovedì 2 maggio 2013

COMMETTE IL REATO DI SOSTITUZIONE DI PERSONA COLUI CHE IN CHAT SI ATTRIBUISCE LE GENERALITA' DI UN ALTRO SOGGETTO

La Corte di cassazione, con la sentenza 18826/2013, ha stabilito che "integra il reato di sostituzione di persona la condotta di colui che crei e utilizzi un account di posta elettronica, attribuendosi falsamente le generalità di un diverso soggetto, inducendo in errore gli utenti della rete Internet, nei confronti dei quali le false generalità siano declinate e con il fine di arrecare danno al soggetto le cui generalità siano state abusivamente spese".
Nel caso di specie la Cassazione ha confermato la condanna di una donna che aveva divulgato su una chat il numero di telefono cellulare della sua ex datrice di lavoro, con la quale aveva in corso una causa civile. La vittima, ignara di tutto, si era trovata all'improvviso a ricevere telefonate e sms di persone interessate a incontri erotici, alcune delle quali l'avevano apostrofata con insulti, inviandole anche mms con immagini porno.
La Suprema Corte ha spiegato che "non può non rilevarsi al riguardo che il reato di sostituzione di persona ricorre non solo quando si sostituisce illegittimamente la propria all'altrui persona, ma anche quando si attribuisce ad altri un falso nome o un falso stato ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, dovendosi intendere per 'nome’ non solo il nome di battesimo ma anche tutti i contrassegni di identità". Ed in tali contrassegni "vanno ricompresi quelli, come i cosiddetti 'nicknames' (soprannomi) utilizzati nelle comunicazioni via internet che attribuiscono una identità sicuramente virtuale, in quanto destinata a valere nello spazio telematico del web, la quale tuttavia non per questo è priva di una dimensione concreta, non essendo revocabile in dubbio che proprio attraverso di essi possono avvenire comunicazioni in rete idonee a produrre effetti reali nella sfera giuridica altrui, cioè di coloro ai quali il 'nickname’ è attribuito". Il 'nickname’, nel caso in cui "non vi siano dubbi sulla sua riconducibilità ad una persona fisica", assume infatti "lo stesso valore dello pseudonimo ovvero di un nome di fantasia, la cui attribuzione, a sé o ad altri, integra pacificamente il delitto di cui all'articolo 494 c.p.", ovvero il reato di sostituzione di persona.