giovedì 28 aprile 2011

LA COSTITUZIONE ITALIANA: LA PIU' AFFASCINANTE DELLE LETTURE - ARTICOLO 16


Costituzione della Repubblica italiana, articolo 16: "Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche. Ogni cittadino è libero di uscire dai territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge".
L'articolo 16 della Costituzione pone la libertà di circolazione e di soggiorno in stretta dipendenza dalla libertà personale: è evidente che la libertà di disporre della propria persona fisica comprenda anche la libertà di sposatmento e di circolazione. Tuttavia, questo diritto costituzionale non possiede la caratteristica dell'inviolabilità (sul cui significato abbiamo già discusso) e soprattutto non spetta ad ogni uomo ma solo ai cittadini italiani: assume, dunque, una fondamentale importanza il possesso della cittadinanza.
Non trova, dunque, riconoscimento costituzionale il diritto di chi non è cittadino italiano (ma ad esso è equiparato il cittadino di uno Stato dell'Unione europea) ad entrare nel territorio nazionale ed a circolarvi liberamente.
La libertà di circolazione è garantita ai cittadini da una riserva di legge rafforzata per contenuto ma non da riserva di giurisdizione. Le limitazioni alla circolazione devono essere stabilite dalla legge "in via generale per motivi di sanità e di sicurezza"; la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire che il termine "sicurezza" non starebbe ad indicare la sola incolumità fisica delle persone (il c.d. ordine pubblico in senso materiale) ma più in generale l'ordinato vivere civile, comprensivo della pubblica moralità (il c.d. ordine pubblico in senso ideale). Tuttavia, il limite della sicurezza non può in alcun modo riguardare le scelte politiche delle persone. Il significato e la ragione di questa precisazione, compiuta dall'articolo 16, possono essere pienamente compresi solo considerando il fatto che la Costituzione ha così inteso chiaramente ripudiare l'uso indiscriminato, fatto dal regime fascista, delle misure di prevenzione personale (ad esempio il confino), applicate quasi sempre per ragioni politiche, che potevano essere adottate anche in base a semplici indizi o sospetti (non presupponendo necessariamente la commissione dei reati).
Tra i provvedimenti tipici che rientrano nelle limitazioni consentite dall'articolo 16 vi sono i c.d. cordoni sanitari, istituiti per evitare il propagarsi di un'epidemia o per prevenire un contagio; un altro esempio è costituito dalle misure restrittive disposte dalle forze di pubblica sicurezza in occasione di perquisizioni estese ad interi blocchi di edifici.
Quanto alle norme che regolano o limitano l'uso delle strade per motivi di sicurezza o di protezione di altri interessi pubblici (ad esempio, la tutela del paesaggio, della salute pubblica o dei centri storici), esse non incidono proprio sulla libertà di circolazione. La Corte Costituzionale ha, infatti, ritenuto che siano legittime misure che incidono sul movimento della popolazione (divieti, targhe alterne, pedaggi, chiusure per fasce orarie dei centri storici) pur essendo basate su esigenze di pubblico interesse diverse da quelle che attengono ai piani della sicurezza e della sanità: il buon uso e la conservazione della cosa pubblica giustificano questo tipo di misure, le quali debbono essere giudicate con i criteri della ragionevolezza e della proporzionalità.
Identico discorso vale per le norme urbanistiche ed edilizie che restringono il diritto dell'individuo di scegliere il luogo in cui abitare.
La libertà degli spostamenti è riconosciuta sia all'interno del territorio nazionale che in uscita da esso ed è subordinata al possesso di un valido documento di riconoscimento (passaporto o carta d'identità).

mercoledì 27 aprile 2011

LA CASSAZIONE SULLA DIFFAMAZIONE TELEMATICA


La diffamazione è il reato previsto dal codice penale all'art. 595: la fattispecie punisce colui che, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione. Per aversi diffamazione, dunque, occorre 1) che qualcuno comunichi con altre persone e 2) che, nel fare ciò, offenda la reputazione di una terza persona. Conseguentemente, il reato si consuma nel luogo e nell'ora in cui la comunicazione diffamatoria raggiunge i destinatari del messaggio.
Si pone, perciò, il problema di stabilire il luogo di commissione del reato allorquando la diffamazione avvenga attraverso la rete telematica, per sua stessa natura in grado di connettere persone di ogni parte del mondo e di rendere la comunicazione diffamatoria ricevibile da una pluralità indefinita di soggetti.
La Corte di Cassazione, con la
sentenza 26 aprile 2011 n. 16307, ha stabilito che nella diffamazione via Web il luogo in cui viene commesso il reato va individuato nel punto in cui le offese e le denigrazioni siano percepite dal maggior numero di persone.
In materia di diffamazione per via telematica, il luogo commissi delicti deve, dunque, essere individuato in quello in cui le offese e le denigrazioni sono percepite da più fruitori della rete e, dunque nel luogo in cui il collegamento viene attivato e ciò anche nel caso in cui il sito web sia stato registrato all'estero, perché l'offesa sia stata percepita da più fruitori che si trovano in Italia. Ed infatti, in detti casiai fini dell'individuazione della competenza, sono inutilizzabili, in quanto di difficilissima se non impossibile individuazione, i criteri oggettivi unici, quali, ad esempio, quelli di prima pubblicazione, di immissione della notizia in rete, di accesso del primo visitatore”, né “quello del luogo in cui è situato il server, in cui il provider alloca la notizia”.

 

giovedì 21 aprile 2011

L'INFEDELTA' RECIPROCA IMPEDISCE L'ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE IN CAPO AD UNO DEI CONIUGI


La Corte di Cassazione con la sentenza n. 9074 del 20 aprile 2011 ha chiarito che se le infedeltà coniugali sono incrociate e tollerate vicendevolmente da molti anni diventa difficile farne il motivo di addebito della separazione.
I giudici di Cassazione hanno così confermato la decisione con cui la Corte di appello di Milano, nell'ambito del procedimento per separazione giudiziale di una coppia di coniugi, aveva escluso l'addebito in capo alla ex moglie, in considerazione del fatto che il tradimento, tra i due, era da tempo reciproco.

In primo grado il tribunale di Milano aveva dato ragione al marito, ritenendo provata l’infedeltà, ed aveva  interrotto la corresponsione di una lauto assegno mensile corrisposto in via provvisoria. In Appello, però, la Corte, accogliendo parzialmente l’impugnazione della moglie, ha escluso che si potesse imputarle la separazione, in quanto dal quadro probatorio emergeva “un regime coniugale improntato a reciproca autonomia e libertà sentimentale” e ciò “escludeva ogni nesso causale tra l’infedeltà della moglie e la compromissione del vincolo coniugale”. Pertanto, la conclusione risultava essere che “la separazione non potesse essere addebitata a nessuno dei due coniugi” e che, dunque, alla signora poteva essere riattribuito l’assegno di mantenimento, determinato in misura tale da consentirle un tenore di vita adeguato a quello avuto con il marito.
Ebbene, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d'Appello, affermando “che la reiterata inosservanza da parte di entrambi dell'obbligo di reciproca fedeltà, pur se ricorrente, non costituiva circostanza sufficiente a giustificare l'addebito della separazione in capo all'uno o all'altro o ad entrambi, essendo sopravvenuta in un contesto di disgregazione della comunione spirituale e materiale tra coniugi, quale rispondente al dettato normativo ed al comune sentire, e in particolare in un'emersa situazione già stabilizzata di reciproca sostanziale autonomia di vita, non caratterizzata da affectio coniugalis”.

 

giovedì 14 aprile 2011

LA COSTITUZIONE ITALIANA: LA PIU' AFFASCINANTE DELLE LETTURE - ARTICOLO 15


Costituzione della Repubblica italiana, articolo 15: "La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge".
L'articolo 15 della Costituzione garantisce e tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. Occorre subito dire che i soggetti titolari del diritto sono tanto i cittadini italiani quanto gli stranieri, tanto le persone fisiche quanto quelle giuridiche e la tutela si applica sia al mittente che al destinatario del messaggio.
Il diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza rientra tra i valori supremi costituzionali, tanto da essere qualificato come "inviolabile": il suo contenuto non può, dunque, essere oggetto di revisione costituzionale e non può essere oggetto di restrizioni o limitazioni da parte di alcuno dei poteri costituiti, se non in ragione dell'inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante (e semprechè l'intervento limitativo rispetti la duplice riserva già vista a proposito dell'art. 13, di legge e di giurisdizione).
Quanto al concetto di corrispondenza, può essere utile fare riferimento a quanto stabilisce l'art. 616 del codice penale, il quale afferma che con tale termine si intende la comunicazione "epistolare, quella telegrafica, telefonica, informatica o telematica, ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza". Inoltre, è la stessa norma costituzionale a contenere una cosiddetta clausola aperta, cioè la possibilità, espressa con la locuzione "ogni altra forma di comunicazione", che il summenzionato diritto si adatti nel tempo a seconda dei mezzi di comunicazione che si rendano disponibili con lo sviluppo tecnologico.
Esattamente come per i due articoli precedenti, anche in tema di inviolabilità della corrispondenza, solo la legge può stabilire quando e come la libertà può essere limitata, e solo l’autorità giudiziaria (il magistrato) può disporre strumenti per limitarla nei casi e nei modi previsti dalla legge.
Uno strumento utilizzato dall'autorità giudiziaria che ha l'effetto di limitare la segretezza delle comunicazioni è certamente l'intercettazione: nel diritto processuale penale essa è un mezzo di ricerca della prova tipico, in quanto previsto e disciplinato dall'art. 266 e seguenti del codice di procedura penale, e consiste nell'attività diretta a captare comunicazioni e conversazioni, nonché flussi di comunicazioni informatiche o telematiche mediante strumenti della tecnica.
Ovviamente, questo strumento subisce i limiti posti dall'art. 15 della Costituzione, relativamente alla riserva di legge e alla riserva di giurisdizione: infatti, l'intercettazione può essere disposta solamente in procedimenti relativi a determinati reati previsti dall'art. 266 del codice di procedura penale e deve essere autorizzata dal giudice per le indagini preliminari con decreto motivato, su richiesta del pubblico ministero.

mercoledì 13 aprile 2011

L'ASSEGNO DI MANTENIMENTO DEI FIGLI LEGITTIMI DEVE ESSERE RIDOTTO SE PREGIUDICA I DIRITTI DEI FIGLI NATURALI


La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8227 depositata l'11 aprile 2011, ha accolto il ricorso presentato da un uomo che chiedeva la riduzione dell'assegno di mantenimento disposto a suo carico in favore dei figli legittimi nati in costanza di matrimonio con la sua ex moglie. Proprio a causa dell'entità degli assegni dovuti e tenendo anche conto del reddito complessivo, l'uomo sosteneva di non essere in grado di mantenere i figli naturali che erano nati a seguito della relazione che aveva intrapreso con la nuova compagna.
Ebbene, la Corte ha riconosciuto che l'entità dell'assegno per la figlia legittima creasse “uno squilibrio, considerate le possibilità economiche del ricorrente, a svantaggio dei due figli naturali che il padre ha avuto dalla convivente”.
L'art. 261 c.c. stabilisce che il riconoscimento del figlio naturale comporta da parte del genitore l'assunzione di tutti i doveri e di tutti i diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi, che sono quelli previsti nell'art. 147 c.c. (obblighi di mantenere, educare ed istruire il figlio). Con l'art. 261 c.c. il legislatore ha affermato il principio di parità di trattamento da parte del genitore dei figli naturali e legittimi, e, quindi, anche di parità di trattamento per quanto riguarda l'obbligo di mantenimento.
Nel caso trattato, dunque, derivava che, in considerazione dei medesimi diritti che spettano ai figli legittimi ed ai figli naturali ai sensi dell'articolo 261 Codice civile, l'assegno nei confronti dei primi doveva essere ridotto di modo che fosse garantito lo stesso tenore di vita per tutti i figli.

martedì 12 aprile 2011

LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO CONDANNA L'ITALIA A CAUSA DELLA PRESCRIZIONE


Proprio nel momento in cui in Italia si discute se accorciare i tempi della prescrizione, dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo arriva una severa condanna per il nostro sistema penale.
Infatti, con la
sentenza del 29 marzo 2011 la Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Alikaj contro Italia (ricorso n. 47357/08), ha non solo accertato la violazione dell’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che riconosce il diritto alla vita, ma ha anche espresso critiche sul sistema penale italiano che non è stato in grado di assicurare, proprio a causa della prescrizione, alcuna funzione deterrente e un’adeguata punizione del colpevole.
A Strasburgo si erano rivolti i genitori e le sorelle di un giovane albanese che era stato ucciso da un agente di polizia. Il diciannovenne si trovava su un’automobile che era stata fermata a un posto di blocco: durante l’inseguimento un agente di polizia aveva esploso un colpo di pistola che aveva colpito e ucciso il ragazzo. L’agente era stato ritenuto colpevole di omicidio colposo, ma la Corte d’assise aveva applicato le attenuanti e, a causa della prescrizione, aveva dichiarato il non luogo a procedere. La Cassazione aveva poi respinto anche il ricorso del pubblico ministero. Di qui la decisione dei familiari di rivolgersi alla Corte di Strasburgo che ha dato ragione ai parenti. Innanzitutto, perché l’inchiesta sulla morte di Alikaj era stata affidata agli stessi colleghi dell’agente di polizia accusato di aver sparato. E poi, perché l’agente di polizia, a causa della prescrizione, non aveva subito neanche una sanzione disciplinare.
Afferma, infatti la Corte che "cependant, compte tenu de l'exigence de célérité et de diligence raisonnable, implicite dans le contexte des obligations positives en cause (voir, parmi d'autres, McKerr, précité, §§ 113-114, et, mutatis mutandis, Yaşa, précité, §§ 101-103), il suffit d'observer que l'application de la prescription relève sans con
teste de la catégorie de ces « mesures » inadmissibles selon la jurisprudence de la Cour, puisqu'elle a eu pour effet d'empêcher une condamnation". Dunque, la prescrizione rientra senza dubbio tra le misure inammissibili secondo la giurisprudenza della Corte perché ha l’effetto di impedire una condanna.
Secondo la Corte di Strasburgo, il sistema penale italiano, nel caso specifico, non aveva svolto alcuna funzione “deterrente idonea ad assicurare la prevenzione efficace degli atti illeciti”.

lunedì 11 aprile 2011

NON FERMARSI COL SEMAFORO ROSSO E PROVOCARE UN INCIDENTE MORTALE E' OMICIDIO VOLONTARIO


La Corte di Cassazione, con la sentenza 15 marzo 2011, 10411, ha stabilito che non fermarsi con il semaforo rosso e provocare la morte di una persona è omicidio volontario. Tale decisione è maturata a seguito del caso sottoposto nel quale un automobilista, sprovvisto di patente, alla guida di un furgone rubato, sfrecciava ad alta velocità in presenza di diversi semafori rossi, al fine di sfuggire ad una volante della polizia la quale, a sirene spiegate, decideva di inseguire detto furgone: il furgone, dopo l’ennesimo passaggio senza rispettare il semaforo rosso, si andava a scontrare con due automobili transitanti nello stesso incrocio, procurando la morte di uno degli occupanti di queste ed il ferimento di altre persone.
La Suprema Corte ha rilevato che la giurisprudenza di legittimità individua il fondamento del dolo indiretto o eventuale "nella rappresentazione e nell'accettazione, da parte dell'agente, della concreta possibilità, intesa in termini di elevata probabilità, di realizzazione dell'evento accessorio allo scopo perseguito in via primaria". Il soggetto pone in essere un'azione accettando il rischio del verificarsi dell'evento, che nella rappresentazione psichica non é direttamente voluto, ma appare probabile. In altri termini, l'agente, pur non avendo avuto di mira quel determinato accadimento, ha tuttavia agito anche a costo che questo si realizzasse, sicché lo stesso non può non considerarsi riferibile alla determinazione volitiva (Sez. Un. 12 ottobre 1993, n. 748; Sez. Un. 15 dicembre 1992, Cutruzzolà, in Cass. pen., 1993, 1095; Sez. Un. 12 ottobre 1993, n. 748; Sez. Un. 14 febbraio 1996, n. 3571; Sez. 1^, 12 novembre 1997, n. 6358; Sez. 1^, 11 febbraio 1998, n. 8052; Sez. 1^, 20 novembre 1998, n. 13544; Sez. 5^, 17 gennaio 2005, n. 6168; Sez. 6^, 26 ottobre 2006, n. 1367; Sez. 1^, 24 maggio 2007, n. 27620; Sez. 1^, 29 gennaio 2008, n. 12954).
Nel dolo eventuale il rischio deve essere accettato a seguito di una deliberazione con la quale l'agente subordina consapevolmente un determinato bene ad un altro. L'autore del reato, che si prospetta chiaramente il fine da raggiungere e coglie la correlazione che può sussistere tra il soddisfacimento dell'interesse perseguito e il sacrificio di un bene diverso, effettua in via preventiva una valutazione comparata tra tutti gli interessi in gioco - il suo e quelli altrui - e attribuisce prevalenza ad uno di essi. L'obiettivo intenzionalmente perseguito per il soddisfacimento di tale interesse preminente attrae l'evento collaterale, che viene dall'agente posto coscientemente in relazione con il conseguimento dello scopo perseguito. Non è, quindi, sufficiente la previsione della concreta possibilità di verificazione dell'evento lesivo, ma è indispensabile l'accettazione, sia pure in forma eventuale, del danno che costituisce il prezzo (eventuale) da pagare per il conseguimento di un determinato risultato (Sez. 6^, 26 ottobre 2006, n. 1367; Sez. 1^, 29 gennaio 2008, n. 12954; Sez. 5^, 17 settembre 2008, n. 44712).

IL LOCATORE E' RESPONSABILE DEI DANNI DA INQUINAMENTO PROVOCATI DAL CONDUTTORE


La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6525 del 2011, ha condannato il proprietario di un terreno concesso in locazione a risarcire al Comune i danni ambientali provocati dal conduttore che aveva abbandonato nell'area locata dei rifiuti tossici nocivi.
Secondo la Corte, una volta acquisita la consapevolezza dell'esistenza di rifiuti sul terreno concesso in locazione, il proprietario, per evitare la corresponsabilità con il conduttore, avrebbe dovuto pretendere lo sgombero immediato del terreno ed, eventualmente, adire le vie giudiziali in via cautelare.
Invece, omettendo la dovuta vigilanza nei confronti del conduttore, il proprietario non aveva evitato che la situazione peggiorasse: ed infatti, a seguito dell'esondazione di un fiume limitrofo al terreno in questione, i materiali inquinanti avevano raggiunto gli appezzamenti circostanti costringendo il Comune ad intervenire con una dispendiosa opera di bonifica.

 

martedì 5 aprile 2011

L'ENTE PROPRIETARIO DELLA STRADA E' RESPONSABILE NEL CASO IN CUI UN GUARD RAIL PERICOLOSO CAUSI LA MORTE DELL'AUTOMOBILISTA


La Corte di Cassazione con la sentenza 21 gennaio 2011, n. 6537 ha accolto il ricorso dei familiari di un automobilista rimasto ucciso in un incidente stradale dopo essere andato a sbattere contro un guard rail, la cui lamiera era penetrata all’interno dell’abitacolo e aveva trapassato l’uomo.
La Suprema Corte, nell'emettere la succitata sentenza, ha dovuto fissare ancora una volta i principi sottesi alla responsabilità per danno cagionato da cose in custodia di cui all'art. 2051 c.c.
Per principio generale la responsabilità da cosa in custodia presuppone che il soggetto al quale la si imputi sia in grado di esplicare, riguardo alla cosa stessa, un potere di sorveglianza, di modificarne lo stato e di escludere che altri vi apportino modifiche.
Secondo i Giudici di Cassazione, l'ente proprietario della strada, una volta accertato che il fatto dannoso si è verificato a causa di una anomalia della strada stessa, può liberarsi da responsabilità per l’evento lesivo arrecato al fruitore della strada solo dimostrando di non avere potuto far nulla per evitare il danno, dimostrando cioè l'esistenza del cosiddetto caso fortuito.
La Suprema Corte precisa che “l'ente proprietario della strada supera la presunzione di colpa quando la situazione che provoca il danno si determina non come conseguenza di un precedente difetto di diligenza nella sorveglianza della strada, ma in maniera improvvisa, atteso che solo quest'ultima - al pari della eventuale colpa esclusiva dello stesso danneggiato in ordine al verificarsi del fatto - integra il caso fortuito previsto dall'art. 2051 c.c., quale scriminante della responsabilità del custode”. Dunque, solo la dimostrazione del caso fortuito libera da responsabilità il proprietario della strada.
Nel caso di specie la Corte di Cassazione ha ritenuto ricorrente la responsabilità ex art. 2051 c.c. in quanto si trattava di un danno relativo ad una anomalia relativa alle barriere di protezione della strada, in relazione alle quali l'ente pubblico era in grado si esercitare il potere di sorveglianza e di adottare tutte le possibili soluzioni per evitare il danno, in quanto era perfettamente a conoscenza sia del tipo di protezione adottato che delle modalità di installazione dello stesso.

 

lunedì 4 aprile 2011

LA CASSAZIONE SULLO STATO DI ADOTTABILITA' DEL MINORE


La Corte di Cassazione con la sentenza n. 7504 del 31 marzo 2011 si è occupata dello "stato di adottabilità" del minore.
Occorre inquadrare normativamente (anche solo per sommi capi) il problema, prima di evidenziare ciò che di importante ha avuto modo di affermare la Cassazione nella sentenza in questione.
Ai sensi dell'art. 8 della legge n. 184/1983 il Tribunale per i Minorenni dichiara in "stato di adottabilità" i minori dei quali sia accertata la situazione di abbandono. Affinché il tribunale per i minorenni possa pronunciare la dichiarazione giudiziale dello stato di adottabilità, dunque, deve essere accertata la sussistenza della situazione di abbandono del minore; questi, cioè, deve essere privo dell'assistenza materiale e morale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi.
Al momento in cui si deve decidere se le carenze della famiglia di origine abbiano superato quella soglia di gravità che giustifica la dichiarazione di abbandono del minore, è necessario svolgere una comparazione fra la realtà familiare in cui il minore ha vissuto e il livello medio di cura che potrebbe essere garantito. Occorre effettuare una valutazione comparativa che abbia, quale proprio termine di paragone, lo stile di vita di un minore la cui età e condizioni di vita siano sostanzialmente analoghe a quelle del singolo minore. L'assistenza che è legittimo esigere dai genitori deve essere considerata, dunque, in modo complessivo, non può essere vista come una mera serie di prestazioni, di cui sia possibile proporre un'elencazione esauriente, e, soprattutto, deve essere comprensiva di vari aspetti, tutti necessari per garantire al minore una formazione, un'educazione e un'istruzione adeguate.
Ai sensi del primo comma dell'art. 15 della legge n. 184/1983, al termine delle indagini e degli accertamenti, il Tribunale per i Minorenni procede alla dichiarazione di adottabilità, se è confermata la situazione di privazione di assistenza morale e materiale e se lo stato di abbandono si presenta come irreversibile.
La Corte di cassazione, con la succitata sentenza, è intervenuta in una vicenda in cui i nonni si erano opposti alla dichiarazione dello stato di adottabilità dei nipoti. La Suprema Corte ha ricordato come, per consolidata giurisprudenza, non è sufficiente ad escludere l'adozione una mera disponibilità dei parenti (ivi compresi i nonni) a farsi carico dei minori, dovendo comunque sussistere un rapporto sottostante di familiarità ed accudimento ovvero, al limite, un tentativo di contrastare la condizione di degrado dei minori con interventi sostitutivi dei genitori o eventualmente con denunce alle autorità di controllo”.