giovedì 31 marzo 2011

LA COSTITUZIONE ITALIANA: LA PIU' AFFASCINANATE DELLE LETTURE - ARTICOLO 14


Costituzione della Repubblica italiana, articolo 14: "Il domicilio è inviolabile. Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale. Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali".
L'articolo 14 della Costituzione costituisce il diretto ampliamento del precedente articolo 13. Infatti, mentre quest'ultimo riguarda la sfera personale (intesa come corporeità della persona) dell'uomo e, come visto, ne sancisce l'inviolabilità, l'articolo in questione allarga la prospettiva, venendo a considerare ciò che, per sua stessa natura, afferisce in maniera più stretta all'individuo: ossia il suo domicilio.
Intanto, occorre cercare di capire cosa si intende per domicilio. Non bisogna commettere l'errore di riferirsi alla distinzione di stampo giuscivilistico tra domicilio, residenza e dimora. Secondo il diritto civile la dimora è il luogo dove la persona si trova attualmente, anche per breve tempo; la residenza è il luogo in cui la persona ha la dimora abituale; il domicilio è il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi.
Ebbene, la Costituzione, parlando di inviolabilità del domicilio, non intende riferirsi solo al luogo in cui la persona ha stabilito la sede dei suoi affari. In realtà, l'articolo 14 tutela, contro illegittime intrusioni dall'esterno, l'inviolabilità del domicilio, inteso come luogo nel quale si estrinseca, in ambito privato, la vita e la personalità della persona. Dunque, quale che sia la natura civilistica del luogo (dimora, residenza o domicilio), qualsiasi luogo destinato permanentemente o transitoriamente all'esplicazione della vita privata o delle attività lavorative è coperto dalla garanzia costituzionale sancita dall'articolo 14.
Come per la libertà personale, così anche per il domicilio la Costituzione afferma l'inviolabilità, ossia una sorta di confine che non deve essere oltrepassato nè dallo Stato nè da altri soggetti privati. Ancora una volta, dunque, si manifesta questa doppia tutela per la persona e per la sua sfera di libertà: il domicilio riceve protezione, da una parte, nei confronti di ogni abuso proveniente dal potere costituito e ,dall'altra, nei confronti di ogni violazione da parte di altri soggetti privati. E proprio a difesa della libertà domiciliare dell'individuo, lo Stato punisce (si vedano gli artt. 614 e seguenti del codice penale) qualsiasi violazione di domicilio commessa da una persona in danno di un'altra.
Tuttavia, l'interesse generale dello Stato al perseguimento dei reati, alla sicurezza nazionale, alla salute pubblica potrebbe scontrarsi con l'assoluta intangibilità dei luoghi privati in cui si svolge la personalità dell'individuo. Occorre che due beni giuridici contrapposti trovino equilibrio. E questo equilibrio viene cercato dalla Costituzione attraverso la previsione di una doppia riserva, di legge e di giurisdizione.
Come per la libertà personale, anche in tema di inviolabilità del domicilio, solo la legge può stabilire quando e come la libertà può essere limitata, e solo l’autorità giudiziaria (il magistrato) può disporre strumenti per limitarla nei casi e nei modi previsti dalla legge. L'articolo 14, infatti, prevede che, all'interno del domicilio non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale.
L'ispezione nel diritto processuale penale è un mezzo di ricerca della prova tipico, in quanto previsto e disciplinato agli artt. 244 e seguenti del codice di procedura penale. L'art. 244 prevede che l'ispezione può essere disposta dall'autorità giudiziaria quando occorre accertare le tracce e gli effetti materiali del reato. La perquisizione, anch'essa un mezzo di ricerca della prova tipico, è prevista e disciplinata agli art. 247 e seguenti del codice di procedura penale. Si tratta di attività diretta a individuare e acquisire il corpo del reato o cose pertinenti al reato. L'art. 247 c.p.p. prevede che la perquisizione possa essere disposta dall'autorità giudiziaria quando ricorre il fondato motivo che taluno occulti sulla persona il corpo del reato o cose pertinenti al reato (in tal caso si ha perquisizione personale, disciplinata dall'art.249 c.p.p.); ovvero quando ricorre il fondato motivo che tali cose si trovino in un luogo determinato ovvero in tale luogo determinato sia possibile eseguire l'arresto dell'imputato o dell'evaso (perquisizione locale, ex art.250 c.p.p.). Il sequestro, parimenti un mezzo di ricerca della prova tipico, è disposto dall' autorità giudiziaria, con decreto motivato, ed è diretto alla conservazione dei beni costituenti il corpo del reato o le cose pertinenti al reato prima che essi si disperdano (art.253 c.p.p.).
La Costituzione stabilisce che tutti questi strumenti di ricerca della prova, i quali comportano una compressione (talvolta necessaria) del diritto all'inviolabilità del domicilio, si svolgano secondo normative previste dalla legge (riserva di legge) e solo a seguito di provvedimenti motivati disposti dall'autorità giudiziaria (riserva di giurisdizione), secondo le garanzie previste per la tutela della libertà personale
Per quanto concerne, invece, qualunque provvedimento di indagine deciso dalla pubblica amministrazione, per motivi di sanità (ad esempio per verificare le condizioni igieniche di un'abitazione o di un luogo di lavoro), di incolumità pubblica (ad esempio per verificare le condizioni di sicurezza di un luogo di lavoro o di un locale aperto al pubblico) oppure economici o fiscali (ad esempio per verificare il rispetto della legge o il regolare adempimento degli obblighi tributari), quando consiste in una semplice verifica su cose e luoghi a carattere obbligatorio ma non coercitivo, implicando la collaborazione dell'interessato che, a suo rischio e pericolo, può anche rifiutarsi di adempiere all'ordine o all'invito, esso non è accompagnato dalle garanzie che assistono l'attività della polizia e della magistratura: per tali provvedimenti di indagine, infatti, la Costituzione non prevede una riserva di giurisdizione e affida alla legge speciale la regolamentazione.

martedì 29 marzo 2011

LA CASSAZIONE SUL TERMINE ESSENZIALE NEL PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA


Gli elementi accidentali del negozio giuridico sono: la condizione, il termine ed il modo. La condizione è un avvenimento futuro ed incerto dal cui verificarsi le parti fanno dipendere l'inizio o la cessazione degli effetti di un negozio giuridico; il modo è l’onere imposto da una parte all’altra, ma è previsto solo negli atti gratuiti; Il termine costituisce la scadenza entro cui oppure a partire da cui una certa prestazione dev’essere compiuta.
Il termine può essere considerato essenziale: ai sensi dell'art. 1457 c.c.  si intende così quel termine superato il quale la prestazione sarebbe inutile per il creditore; la mancata esecuzione della prestazione comporta automaticamente la risoluzione del contratto. (La legge tiene comunque conto del fatto che il creditore possa esigere ugualmente la prestazione, anche se ormai tardiva)
Ebbene, l’art. 1457 c.c. disciplina gli effetti dell’apposizione al contratto del cosiddetto termine essenziale di adempimento. La norma, al primo comma, prevede che “se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l’esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all’altra parte entro tre giorni”.
Il secondo comma descrive gli effetti dell’inerzia della parte nel cui interesse è previsto il termine, prevedendo che qualora essa non manifesti entro tre giorni dalla scadenza del termine la volontà di esigere ugualmente la prestazione, il contratto s’intende risoluto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione.
Con particolare riferimento all’apposizione di un termine essenziale ad un contratto preliminare, la giurisprudenza di legittimità ha però avuto modo di precisare che in tema di contratto preliminare di compravendita, il termine stabilito per la stipulazione del contratto definitivo non costituisce normalmente un termine essenziale, il cui mancato rispetto legittimala dichiarazione di scioglimento del contratto. Tale termine può ritenersi essenziale, ai sensi dell’art.1457 c.c., solo quando, all’esito di indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, da condursi alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e, soprattutto, della natura e dell’oggetto del contratto (e, quindi, insindacabile in sede di legittimità se logicamente ed adeguatamente motivata in relazione a siffatti criteri), risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di considerare ormai perduta l’utilità economica del contratto con l’inutile decorso del termine(Cass. civ., n. 3645/2007)
La Cassazione con la
sentenza 18 febbraio 2011, n. 3993 ha, dunque, spiegato che "qualora sia pattuito un termine essenziale per l'adempimento della prestazione, la risoluzione del contratto opera di diritto, prescindendo dall'indagine in ordine alla importanza dell'inadempimento, che è stata anticipatamente valutata dai contraenti, dovendo in tal caso il giudice limitarsi ad accertate la sussistenza e l'imputabilità dell'inadempimento".

mercoledì 23 marzo 2011

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE CHE DURANTE LA MALATTIA ESCE DI CASA SU PRESCRIZIONE DEL MEDICO


Non è licenziabile il lavoratore che, durante un periodo di malattia, esce di casa, a piedi e in auto, per le normali incombenze della vita quotidiana, seguendo le prescrizioni del medico curante. E' quanto affermato dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione che, con sentenza n. 6375 del 21 marzo 2011, ha respinto il ricorso di un un'azienda - che aveva fatto pedinare e aveva poi licenziato un dipendente - avverso la sentenza della Corte d'appello di Torino. Questa aveva infatti dichiarato l'illegittimità del licenziamento con reintegrazione e risarcimento danni per il lavoratore.
Nel caso che ci occupa il dipendente aveva subito una distorsione alla caviglia e, per questo, era stato esentato dal medico a svolgere l'attività lavorativa. Il datore di lavoro, allora lo aveva fatto sorvegliare da un investigatore privato e aveva scoperto che il lavoratore era in grado di sostenere alcune attività quali camminare in centro e guidare l'automobile.
Ebbene, la Suprema Corte ha confermato la decisione dei Giudici d'appello in quanto "sorretta da una motivazione adeguata e logica, oltre che immune da errori di diritto circa la mancanza di prova di una violazione disciplinare a fondamento del licenziamento intimato"; ha inoltre precisato come nessun addebito poteva essere mosso al lavoratore adeguatosi alle indicazioni del suo medico curante, che gli aveva prescritto di "compiere del movimento e, in particolare, di camminare". Gli Ermellini, affermando che riprendere la vita normale non ritarda la guarigione, hanno sottolineato inoltre che, dalle indagini investigative, non era emerso lo svolgimento da parte del dipendente di altre attività lavorative bensì "la ripresa di alcune attività della vita privata cioè di attività di una gravosità di cui non è evidente la comparabilità a quella di un'attività lavorativa a tempo pieno".
La Cassazione non ha, dunque, consentito di procedere al licenziamento: in primo luogo il dipendente soffriva effettivamente di una distorsione alla caviglia, accertata dal personale sanitario; in secondo luogo non aveva fatto altro che seguire le prescrizioni del medico. Infatti, un conto è effettuare una passeggiata in centro, un altro è eseguire per tutto il giorno prestazioni lavorative da compiere per lo più in piedi.

martedì 15 marzo 2011

VIOLA LA PRIVACY L'AMMINISTRATORE CHE AFFIGGE IN BACHECA IL NOMINATIVO DEL CONDOMINO MOROSO


La Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 186 del 4 gennaio 2011, ha stabilito che l’affissione nella bacheca dell’androne condominiale, da parte dell’amministratore, dell’informazione concernente le posizioni debitorie dei singoli condomini costituisce una indebita diffusione di dati, come tale illecita e fonte di responsabilità, ai sensi degli artt. 11 e 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 (codice in materia di protezione dei dati personali).
Inizialmente il Tribunale di Napoli e successivamente la Corte d’Appello avevano respinto l’istanza. Invece, la Corte di Cassazione ha accolto la richiesta del condomino spiegando che il trattamento dei dati personali deve avvenire nell’osservanza dei principi di proporzionalità, di pertinenza e di non eccedenza rispetto agli scopi per i quali i dati stessi sono raccolti.
Di conseguenza, l'amministratore può e deve comunicare i dati di cui è in possesso nell’ambito delle informazioni periodiche, ma ha il dovere di adottare le opportune cautele per evitare l’accesso a quei dati da parte di persone estranee al condominio.
Nel caso de quo è stato riconosciuto al condomino il diritto al risarcimento del danno per illiceità del comportamento tenuto quale fonte di responsabilità civile.
La Suprema Corte ha sancito il principio secondo cui "la disciplina del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, prescrivendo che il trattamento dei dati personali avvenga nell'osservanza dei principi di proporzionalità e di non eccedenza rispetto agli scopi per cui i dati stessi sono raccolti, non consente che gli spazi condominiali, aperti all'accesso a terzi estranei al condominio, possano essere utilizzati per la comunicazione di dati personali riferibili al singolo condomino. Fermo il diritto di ciascun condomino di conoscere, anche, anche su propria iniziativa, gli inadempimenti altrui nei confronti della collettività condominiale - l'affissione nella bacheca dell'androne condominiale, da parte dell'amministratore, dell'informazione concernente le posizioni di debito del singolo partecipante al condominio, risolvendosi nella messa a disposizione di quel dato in favore di una serie indeterminata di persone estranee, costituisce un'indebita diffusione, come tale illecita e fonte di responsabilità civile, ai sensi degli artt. 11 e 15 del codice".

 

giovedì 10 marzo 2011

LA COSTITUZIONE ITALIANA: LA PIU' AFFASCINANTE DELLE LETTURE - ARTICOLO 13


Costituzione della Repubblica italiana, articolo 13: "La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva".
L'articolo 13 costituisce uno dei pilastri sul quale si fonda la nostra Costituzione e uno dei cardini dell'intero ordinamento italiano.
La libertà personale è inviolabile: la Costituzione sembra ammonire i cittadini ed il legislatore utilizzando il concetto di inviolabilità, indica una sorta di confine che non deve essere oltrepassato; e questo confine coincide con il diritto in capo ogni essere umano di potere disporre del proprio corpo in maniera libera. Si badi bene che questo diritto è volutamente previsto dalla Costituzione per ogni persona presente sul suolo nazionale: non importa quale sia la sua cittadinanza, il diritto all'inviolabilità della libertà personale spetta ad ogni essere umano.
Il nucleo fondamentale della libertà personale è la libertà fisica, la disponibilità della propria persona.
Ed è ovvio che la libertà nasca e venga affermata contro i poteri repressivi dello Stato, perchè è lo Stato che, negli ordinamenti moderni, ha assunto il monopolio dell'uso legittimo della forza. Solo lo Stato può limitare, a condizione che rispetti le norme dell'art. 13 Cost., la libertà fisica delle persone. Nei confronti degli altri soggetti lo Stato si fa garante della libertà personale dell'individuo, per cui ogni limitazione della libertà personale da parte di soggetti privati costituisce un illecito penale.
Nella sua accezione più ristretta, dunque, la libertà personale coincide con la libertà dagli arresti, ossia l'habeas corpus.
Occorre una digressione che tracci la nascita di questo concetto.
Nel sistema anglosassone di common law si indica con la locuzione habeas corpus ("che tu abbia il corpo") l'ordine emesso da un giudice di portare un prigioniero al proprio cospetto. Ciò vale in senso stretto, poiché di solito si fa riferimento all'atto legale o al diritto in base al quale una persona può ricorrere per difendersi dall'arresto illegittimo di se stessa o di un'altra persona. Il diritto di habeas corpus nel corso della storia è stato un importante strumento per la salvaguardia della libertà individuale contro l'azione arbitraria dello stato. Tale sistema è stato inserito nell'importante documento della Magna Charta successivamente a rivendicazioni di baroni inglesi.
L'habeas corpus è diretto a un'autorità pubblica che ha eseguito un arresto, per rendere ragione della detenzione di quella persona: il più efficiente sistema di salvaguardia della libertà individuale. Su richiesta della persona arrestata, con il writ il magistrato ne ordina l'esibizione avanti a sé in udienza ("Habeas corpus, ad subjiciendum judicium!": ne sia esibito il corpo, per sottoporlo a giudizio!), per verificare se egli sia ancora vivo, l'accusa e le circostanze dell'arresto. L'Habeas Corpus è un appello al giudice contro una detenzione ingiustificata. Si tenga presente che l'arresto o la cattura di chiunque, nel medio evo o nell'era moderna, erano disposte ed attuate immediatamente dalla stessa autorità amministrativa (Sheriffs, gaolers and other Officers ...), senza motivazione esplicita, spesso a fini non penali (tributari, debiti privati, ordine pubblico ...). Il ricorso al giudice della Corona (cioè un emissario diretto del Re), costituì così la prima e più importante garanzia verso gli abusi, potendosi scavalcare così l'Ufficiale che aveva eseguito l'arresto.
Ebbene, la Costituzione italiana sancisce l'habeas corpus stabilendo che "non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge". Solo l'autorità giudiziaria, attraverso un atto motivato e nei soli casi e modi previsti dalla legge può disporre una restrizione della libertà personale. Vi sono dunque una riserva di legge e una riserva di competenza che pongono limiti alla libertà degli individui. Solo la legge può stabilire quando e come la libertà può essere limitata, e solo l’autorità giudiziaria (il magistrato) può disporre strumenti per limitarla nei casi e nei modi previsti dalla legge. Da ciò ne consegue, per esempio, che il potere esecutivo (il governo) non può limitare la libertà degli individui in alcun modo.
L'articolo 13, tuttavia, prevede che vi siano casi di eccezionali di necessità e urgenza, indicati tassativamente dalla legge, nell'ambito dei quali l'autorità di pubblica sicurezza possa adottare provvedimenti provvisori di restrizione della libertà: si pensi, ad esempio, al caso dell'arresto in flagranza di reato. Ma anche in questi casi, coperti anch'essi da una riserva di legge, i provvedimenti provvisori adottati dall'autorità di pubblica sicurezza devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. Anche in questi casi, dunque, la riserva di giurisdizione non è superabile.
La Costituzione si preoccupa anche di tutelare le persone sottoposte a restrizione della libertà personale a seguito di un provvedimento giudiziario, stabilendo che è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. Naturalmente, vengono alla mente i casi, riportati dalle cronache, che ancora oggi dimostrano l'esistenza di sciagurati casi in cui l'autorità di pubblica sicurezza si è resa responsabile di maltrattamenti ai danni di persone sottoposte agli arresti. La Costituzione punisce qualsiasi abuso (non solo fisico ma anche morale) ai danni di persone sottoposte a restrizioni di libertà, consapevole del fatto che, proprio per la mancanza di una piena libertà, l'individuo si trova in una condizione di debolezza e fragilità.
Infine, l'articolo 13 prevede una riserva di legge in tema di carcerazione preventiva. La custodia cautelare (o carcerazione preventiva) indica la detenzione in carcere dell'imputato, disposta dal giudice con mandato di cattura, su richiesta del pubblico ministero, quando sussistano particolari esigenze. In primo luogo, a carico dell'imputato devono sussistere gravi indizi di colpevolezza, inoltre devono esistere esigenze relative alle indagini (per l'acquisizione e il non inquinamento delle prove), timori fondati di fuga, pericolo di uso di armi o altri mezzi di violenza personale e devono risultare inadeguate tutte le altre misure (come il divieto di espatrio, l'obbligo di presentarsi negli uffici di polizia giudiziaria, il divieto di dimorare in un determinato luogo o invece l'obbligo di dimorarvi). Il legislatore ha stabilito che la durata massima della custodia cautelare non possa superare i due anni (pena massima sei anni), quattro anni (pena massima venti anni), i sei anni (pena massima l'ergastolo o superiore a venti anni). Ovviamente, il periodo di custodia cautelare si detrae dalla durata della pena detentiva.

mercoledì 9 marzo 2011

RICONOSCIUTO IL DANNO BIOLOGICO A CHI FA TROPPE ORE DI STRAORDINARIO


Il caso trattato dalla Cassazione ha riguardato un dipendente costretto dal suo datore di lavoro ad effettuare ore di straordinario eccessive e massacranti (addirittura una media di 144 ore di straordinario al mese che hanno allungato a dismisura i turni del povero dipendente per sopperire alle necessità del datore di lavoro).
Ebbene, la Suprema Corte, in particolare  la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, nella
sentenza n. 5437 depositata l’8 marzo 2011 ha stabilito che il dipendente vessato in tal modo abbia diritto di ottenere il risarcimento del danno biologico se gli è diagnosticato uno stress psicofisico.
La Cassazione ha anche precisato (e ciò costituisce una osservazione di non poco conto) che nella quantificazione del danno biologico il giudice non può limitarsi a richiamare il criterio dell’equità e ad individuare una somma ma deve giungere alla determinazione mediante una valutazione medico legale.

martedì 8 marzo 2011

LA CASSAZIONE IN TEMA DI STALKING (O, PIU' CORRETTAMENTE, ATTI PERSECUTORI)


Il decreto legge n. 11/09 ha introdotto nel nostro ordinamento una nuova fattispecie di reato, costituita dai cosiddetti atti persecutori (volgarmente detti "stalking", dal verbo inglese "to stalk"  che indica il comportamento di colui che "insegue furtivamente la selvaggina"). In realtà, la caccia ed il comportamento dei cacciatori non riguarda per nulla il reato in questione, che invece punisce il comportamento di chi importuna, molesta o minaccia, con varie modalità, un soggetto vittima, in modo così grave da determinare in quest'ultimo un sentimento di paura per la propria incolumità ed ingenerando in esso un condizionamento negativo relativamente alla vita privata e di relazione.
L'art. 612 bis c.p. prevede, infatti, che, “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico ovvero da determinare un giustificato timore per la sicurezza personale propria o di una persona vicina o comunque da pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a quattro anni”.
Perché possa ritenersi configurato il reato di stalking è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano “un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima”. E detti atti persecutori possono consistere anche in comportamenti vandalici ai danni dei beni della vittima.
E' quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 8832 del 7 marzo 2011.
Per la Corte “danneggiare l'automobile, il sistema d'allarme, il campanello e la porta dell'abitazione della propria ex sono comportamenti che integrano il reato di stalking, per il quale si può essere sottoposti alla misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima”.
Inoltre, perché possa parlarsi di stalking non è necessario che nella vittima insorga una vera e propria malattia di genere ansioso essendo sufficiente il prodursi di “un grave e prolungato turbamento emotivo”.
Gli ermellini hanno quindi affermato che “il reato ex art. 612 bis cp è previsto quando il comportamento minaccioso o molesto di taluno, posto in essere con condotte reiterate, sia tale da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero, in alternativa, da ingenerare nella vittima un fondato timore per la propria incolumità ovvero, infine, tale da costringere la vittima stessa ad alterare le proprie abitudini di vita".

 

giovedì 3 marzo 2011

LA COSTITUZIONE ITALIANA: LA PIU' AFFASCINANTE DELLE LETTURE - ARTICOLO 12


Costituzione della Repubblica italiana, articolo 12: "La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni".
L'uso delle bandiere è antico ma solo con le crociate comparvero bandiere simili a quelle che siamo abituati a vedere oggi: infatti vennero dipinte croci di colore diverso su drappi di stoffa per identificare la provenienza dei crociati. Fino alla Rivoluzione francese comunque la bandiera era spesso lo stemma (le "armi") della casata regnante realizzata in forma di bandiera ("bandiera d'armi") e in nessun caso veniva sentita dalla popolazione come la propria "bandiera nazionale". Spesso i disegni erano complessi e ricercati, lontani dalla semplicità delle bandiere d'oggi. Quando, durante la Rivoluzione francese, fu issato il primo Tricolore, si trattò quindi di una novità assoluta. Molte bandiere di tutto il mondo, tra cui quella italiana, si sono ispirate al disegno francese, proprio perchè ispirate ai valori rivoluzionari.
Nella primavera del 1796 avvenne un fatto che avrebbe sconvolto la storia dell'Italia: Napoleone Bonaparte penetra dalle Alpi in territorio piemontese, sconfigge rapidamente l'esercito del Regno di Savoia, batte poi quello austriaco, entra a Milano, impone l'armistizio e poi le condizioni di pace all'Imperatore d'Austria. In tale modo pose le premesse per la creazione di un primo Stato veramente italiano, la Repubblica Cisalpina, a cui ne seguiranno altri, fino alla creazione di una vera e propria Repubblica Italiana, divenuta poi Regno d'Italia.

Il tricolore italiano, quale bandiera nazionale, nasce a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, quando il Parlamento della Repubblica Cispadana, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, decreta "che si renda universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di Tre Colori Verde, Bianco, e Rosso, e che questi tre Colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti". Con la fine dell'età napoleonica, il Tricolore verrà ammainato dalle aste, ma non dai cuori risorgimentali, divenendo simbolo dei combattenti per l'unità e l'indipendenza.
Nei tre decenni che seguirono il Congresso di Vienna, infatti, il vessillo tricolore fu soffocato dalla Restaurazione, ma continuò ad essere innalzato, quale emblema di libertà, nei moti del 1831, nelle rivolte mazziniane, nella disperata impresa dei fratelli Bandiera, nelle sollevazioni negli Stati della Chiesa.
Quando si dischiuse la stagione del '48 e della concessione delle Costituzioni, quella bandiera divenne il simbolo di una riscossa ormai nazionale, da Milano a Venezia, da Roma a Palermo. Il 23 marzo 1848 Carlo Alberto rivolge alle popolazioni del Lombardo Veneto il famoso proclama che annuncia la prima guerra d'indipendenza e che termina con queste parole: "per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana vogliamo che le Nostre Truppe portino lo Scudo di Savoia sovrapposto alla Bandiera tricolore italiana".
Il 17 marzo 1861 venne proclamato il Regno d'Italia e la sua bandiera continuò ad essere, per consuetudine, quella della prima guerra d'indipendenza.
Soltanto nel 1925 si definirono, per legge, i modelli della bandiera nazionale e della bandiera di Stato. Quest'ultima (da usarsi nelle residenze dei sovrani, nelle sedi parlamentari, negli uffici e nelle rappresentanze diplomatiche) avrebbe aggiunto allo stemma la corona reale.
Dopo la nascita della Repubblica, un decreto legislativo presidenziale del 19 giugno 1946 stabilì la foggia provvisoria della nuova bandiera, confermata dall'Assemblea Costituente nella seduta del 24 marzo 1947 e inserita all'articolo 12 della nostra Carta Costituzionale.
Quanto alla simbologia dei colori: il verde indica la speranza, a lungo coltivata e spesso delusa durante l'Ottocento, in un'Italia unita e libera, e la macchia mediterranea, fondamentale elemento del paesaggio italiano; il bianco ricorda le cime alpine, famose per i loro ghiacciai, luoghi dove è stato versato molto sangue per l'Unità d'Italia ricordato dal colore rosso.
Questi tre colori, inoltre, erano già noti ai tempi di Dante Alighieri, e lo si vede nella sua Commedia, come simboli delle tre virtù teologali: verde-speranza; bianco-fede; rosso-carità (Purg. canto XXX, v.30-33): di conseguenza rappresentano la cultura e la letteratura italiana in generale.
Giosuè Carducci rivolgendosi alla bandiera nel 1897 disse  "sii benedetta! benedetta nell'immacolata origine, benedetta nella via di prove e di sventure per cui immacolata ancora procedesti, benedetta nella battaglia e nella vittoria, ora e sempre nei secoli!". Ed aggiunse: "quei colori parlarono alle anime generose e gentili, con le ispirazioni e gli effetti delle virtù onde la patria sta e si angusta: il bianco, la fede serena alle idee che fanno divina l'anima nella costanza dei savi; il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene della gioventù dei poeti; il rosso, la passione ed i l sangue dei martiri e degli eroi!".

mercoledì 2 marzo 2011

LA CASSAZIONE RITIENE PROPORZIONATA LA SANZIONE DELLA SOSPENSIONE PER IL LAVORATORE CHE LASCIA IL POSTO PRIMA DELL'ORARIO


La Corte di Cassazione con la sentenza 1 marzo 2011 n. 5019 ha ritenuto proporzionata la sanzione disciplinare della sospensione e non quella del licenziamento per il lavoratore che si allontana anzitempo dal posto di lavoro.
La Suprema Corte ha confermato la sentenza d'appello relativa ad un dipendente di un aereoporto che era stato accusato di aver ingiustificatamente lasciato il posto di lavoro in occasione di un turno pomeridiano dopo avere alterato lo strumento aziendale di controllo delle presenze.
I giudici del merito avevano detto no al licenziamento, rilevando che l'impiegato aveva lasciato il posto di lavoro solo qualche minuto prima della fine del turno e aveva comunque svolto tutti i compiti affidatigli per la giornata.
La Cassazione ha affermato che, in tema di licenziamento disciplinare, la gravità della condotta contestata del lavoratore deve essere valutata in base alla considerazione complessiva sia del suo contenuto obiettivo che della sua portata soggettiva, in relazione alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi che hanno determinato il comportamento e all'intensità dell'elemento volitivo.
Dunque, "si sarebbe trattato di una sicura mancanza disciplinare da parte del lavoratore ma non tale da meritare la sanzione espulsiva, in assenza di un consapevole intento elusivo del controllo e pertanto ritenuta adeguatamente sanzionabile con 5 giorni di sospensione".

 

L'AUTOSTRADA E' RESPONSABILE AI SENSI DELL'ART. 2051 C.C. PER I SINISTRI CAGIONATI DA UN MANTO STRADALE MALCUSTODITO


La Corte di Cassazione con la sentenza 20 gennaio – 24 febbraio 2011, n. 4495, esaminando il caso di un sinistro verificatosi lungo la rete autostradale a causa del manto ghiacciato, ha affermato che la società che gestisce le autovie è responsabile ai sensi dell'art. 2051 c.c. per i danni provocati dalle cose in custodia, salvo che provi il caso fortuito.
Il caso fortuito, vale la pena ricordarlo, indica un evento assolutamente imprevedibile. Ed il ghiaccio nella stagione invernale non può certo considerarsi un evento assolutamente imprevedibile.
La Cassazione ha spiegato che nell'applicazione del principio di cui all'art. 2051 c.c. "occorre distinguere le situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze dell'autostrada, da quelle provocate dagli stessi utenti ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato della cosa, che pongano a repentaglio l'incolumità degli utenti e l'integrità del loro patrimonio. Mentre per le situazioni del primo tipo, l'uso generalizzato e l'estensione della res costituiscono dati in via generale irrilevanti in ordine al concreto atteggiarsi della responsabilità del custode, per quelle del secondo tipo dovrà configurarsi il fortuito tutte le volte che l'evento dannoso presenti i caratteri della imprevedibilità e della inevitabilità come accade quando esso si sia verificato prima che l'ente proprietario o gestore, nonostante l'attività di controllo e la diligenza impiegata al fine di garantire un intervento tempestivo, potesse rimuovere o adeguatamente segnalare la straordinaria situazione di pericolo determinatasi, per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere".