martedì 25 gennaio 2011

LA CORTE DI CASSAZIONE NUOVAMENTE SULL'ASSEGNO DI DIVORZIO


La Corte di Cassazione con la sentenza n. 1612/2011 ha ribadito ancora una volta che il coniuge obbligato al mantenimento deve assicurare all'altro lo stesso tenore di vita avuto nel corso delle nozze. La conseguenza che ne deriva è che se la donna, casalinga, era abituata a un elevato tenore di vita e indossava sempre abiti fimati e gioielli, l'uomo, dopo il divorzio, è tenuto a versare un assegno mensile di importo considerevole in modo da consentirle di proseguire nell'acquisto di questi beni.

giovedì 20 gennaio 2011

LA COSTITUZIONE ITALIANA: LA PIU' AFFASCINANTE DELLE LETTURE - ARTICOLO 8


Costituzione della Repubblica italiana, articolo 8: "Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondi i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze".
Questo articolo pone un principio fondamentale per uno Stato moderno, laico e democratico: tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere dinanzi ad essa.
Occorre ricordare che prima della promulgazione della Costituzione, le confessioni religiose diverse da quella cattolica erano considerate “culti ammessi”, disciplinati da una particolare legge (tuttora in vigore per quelle confessioni che ancora non hanno stipulato intese con lo Stato Italiano: si tratta della legge 1159 del 1929 e dei R.D. 289 del 1930 e 1731 del 1930, i quali tuttavia sono stati resi compatibili con i princìpi costituzionali tramite diversi interventi della nostra Corte Costituzionale).
I culti ammessi potevano esercitare le loro attività religiose, ma chiaramente non erano poste normativamente sullo stesso piano della religione cattolica: essi erano soggetti al limite dell’ordine pubblico e del buon costume.
L'articolo in esame elimina dal nostro ordinamento il concetto di religione di Stato (all'epoca era la religione Cristiana Cattolica) il quale, per sua natura si contrapponeva al concetto di altri culti ammessi.
Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere dinanzi alla legge non significa, tuttavia, che esse siano uguali dinanzi alla legge: il concetto è sottile ma di notevole importanza. Dire che sono ugualmente libere dinanzi alla legge significa che le rispettive rappresentanze hanno il diritto di costituirsi e di organizzarsi liberamente. Non rientra, invece, nel principio enunciato dall'articolo in esame un impegno da parte della legge a considerare uguali tutte le confessioni religiose. La cosa è più facilemente comprensibile alla luce dei commi II e III.
Le confessioni diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. La differenza tra questo comma dell'articolo 8 e il primo comma dell'articolo 7 risulta evidente: mentre lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, le altre confessioni hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti ma non viene riconosciuto loro un ordine entro il quale considerarsi indipendenti e sovrane. Anzi, viene richiesto loro che i relativi statuti siano conformi (o per lo meno non siano in aperto contrasto) rispetto all'ordinamento italiano.
Questa lettura parrebbe ridurre notevolmente la portata dell'articolo 8 quale baluardo della libertà religiosa, facendo scorgere una sorta di religione di serie A (la religione Cristiana Cattolica) e religioni di serie B (tutte le altre).
In realtà, si deve considerare che la religione Cristiana Cattolica ha avuto una disciplina specifica all'interno della Costituzione (l'articolo 7), innanzitutto,  in quanto religione storicamente più diffusa in Italia. A ciò si aggiunga la già trattata questione della fine dello Stato Pontificio (proprio ad opera dello Stato italiano) e della successiva nascita dello Stato Città del Vaticano.
Inoltre, si consideri che la norma posta dall'articolo 8 è una norma aperta: aperta verso qualsiasi religione esistente o di futura nascita. E ciascuna di esse può considerarsi ugualmente libera dinanzi alla legge. Tuttavia, proprio perchè la Costituzione (all'atto della sua emanazione) non avrebbe potuto prevedere la possibile nascita di confessioni religiose che sostenessero principi in aperto contrasto con quelli fondamentali dello Stato (si pensi, ad esempio, ad una religione che sostenga la legittimità dell'omocidio o della violenza), l'articolo 8 richiede che le confessioni diverse dalla religione cattolica si organizzino secondo statuti che non contrastino l'ordinamento giuridico italiano.
I rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose sono regolati (come avvenuto con la Chiesa Cattolica, attraverso i Patti Lateranensi, prima, e con gli accordi del 1984, poi) per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. Risulta, qui, bene evidente che la Costituzione vuole impegnare lo Stato ad instaurare un dialogo con tutte le confessioni religiose presenti sul territorio e a concludere intese che ne regolino i rapporti alla stregua di quanto fatto con la Chiesa Cattolica.

martedì 18 gennaio 2011

LE IMMISSIONI RUMOROSE NEI RAPPORTI DI VICINATO


L'art. 844 c.c. stabilisce che "il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o calore, le esalazioni, i rumori,gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale   tollerabilità, avuto riguardo alla condizione dei luoghi.   Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso".
Ma la domanda che si pone (e che genera, fra le altre, innumerevoli liti condominiali) è la seguente: qual è la normale tollerabilità? A che questa ne consegue necessariamente un'altra: quando la stessa può dirsi superata?
La Corte di Cassazione con la
sentenza 939/2011 ha affermato che "mentre è senz'altro illecito il superamento dei limiti stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che, disciplinando le attività produttive, fissano nell'interesse della collettività le modalità di rilevamento dei rumori e i limiti massimi di tollerabilità, l'eventuale rispetto degli stessi non può far considerare senz'altro lecite le immissioni, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità formularsi alla stregua dei principi previsti dall'articolo 844 del codice civile".
In termini più semplici, il ragionamento della Suprema Corte può essere sintetizzato con un esempio: esistono dei limiti (fissati esplicitamente per legge) che le attività produttive devono osservare ma è ovvio che un condomino di uno stabile non può essere al riparo da reprimende solo perchè i rumori che produce sono inferiori a quelli consentiti ad una vetreria posta in un'area cittadina produttiva.
La Corte non ha perso l'occasione per ribadire che, nel conflitto tra le esigenze della produzione ed il diritto alla salute, un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma civilistica deve attribuire necessaria prevalenza proprio al diritto alla salute.

lunedì 17 gennaio 2011

IL DANNEGGIATO NON DEVE DIMOSTRARE DI NON AVERE POTUTO PRENDERE LA TARGA DEL VEICOLO FUGGITO


La Corte di Cassazione con la sentenza sentenza 14 gennaio 2011 n. 745 ha chiarito che il soggetto investito da un veicolo può agire per il risarcimento del danno contro la compagnia desiganta dal Fondo di garanzia senza dover dimostrare di non aver potuto prendere il numero di targa del "pirata della strada".
La Suprema Corte ha, infatti, stabilito che "la prova del fatto costitutivo della pretesa risarcitoria, quanto all'avvenuto evento a opera di ignoti, non richiede da parte della vittima un comportamento di non comune diligenza ovvero di complessa e onerosa attuazione diretto all'identificazione del responsabile, dovendosi al riguardo valutare l'esigibilità di un idoneo suo comportamento avuto riguardo alle sue condizioni psicofisiche e alle circostanze del caso concreto". Insomma, secondo la Corte il soggetto danneggiato non deve essere costretto a trasformarsi in una sorta di investigatore privato, a lui richiedendosi solo la normale diligenza (la quale deve, inoltre, essere valutata in considerazione dell'evento traumatico occorso).

giovedì 13 gennaio 2011

LA COSTITUZIONE ITALIANA: LA PIU' AFFASCINANTE DELLE LETTURE - ARTICOLO 7


Costituzione della Repubblica italiana, articolo 7: "Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale".
Questo articolo, pur nella sua relativa brevità, pone sul piatto molteplici questioni di una rilevanza e di una delicatezza eccezionale. Siamo letteralmente su un campo minato.
Partiamo da una considerazione fondamentale che consente di inquadrare la questione: la Costituzione non vede nella Chiesa cattolica l'espressione di una fede religiosa ma, retaggio di centinaia di anni di potere temporale da parte del Vaticano, la considera alla stregua di uno stato sovrano.
Questa disposizione può essere letta solo ripercorrendo brevemente le vicende che dalla metà dell'800 sino al 1929 hanno visto contrapporsi lo Stato Italiano e lo Stato Pontificio.
Lo Stato Pontificio, detto anche Stato della Chiesa o Stato Ecclesiastico, è il nome dell'entità statuale costituita dall'insieme dei territori su cui la Santa Sede esercitò il proprio potere temporale dal 752 al 1870.
Dopo due decenni di provocazioni prima e vere e proprie battaglie poi, il 20 settembre 1970 il Regno d'Italia (nato nel 1861), ad opera dei bersaglieri del re, completò la presa di Roma e di tutti i territori appartenenti allo Stato Pontificio. Il Regno d'Italia realizzò, dunque, l'annessione del Lazio: liberazione secondo l'ottica italiana, usurpazione secondo quella pontificia.
Il 13 maggio 1871 il Parlamento emanò una legge che elencava i diritti della Santa Sede all'interno del Regno d'Italia. Passata alla storia come «legge delle guarentigie», essa riconosceva il Papa come sovrano indipendente, con il possesso (ma non la proprietà) della Città del Vaticano, dei palazzi del Laterano, della cancelleria a Roma, e della villa di Castel Gandolfo. Stabiliva inoltre che il governo italiano non sarebbe intervenuto nella nomina dei Vescovi. Ma Pio IX non accettò la legge, ne scomunicò gli autori e si considerò prigioniero in Vaticano.
Da allora e per i successivi 60 anni lo Stato italiano e l'ormai ex Stato Pontificio si trovarono a dover convivere da vicini in un rapporto di reciproca sopportazione.
Il primo accordo ufficiale tra la Chiesa e lo Stato italiano fu siglato solo nel 1929, quando con la firma dei Patti Lateranensi venne creato lo Stato della Città del Vaticano, che restituì una minima sovranità territoriale alla Santa Sede. 
I Patti Lateranensi constavano di tre distinti documenti: il Trattato che riconosceva l'indipendenza e la sovranità della Santa Sede e fondava lo Stato della Città del Vaticano; la Convenzione Finanziaria; e il Concordato che definiva le relazioni civili e religiose in Italia tra la Chiesa ed il Governo.
Il governo italiano acconsentì di rendere le sue leggi sul matrimonio ed il divorzio conformi a quelle della Chiesa cattolica di Roma e di rendere il clero esente dal servizio militare. I Patti garantirono alla Chiesa il riconoscimento di religione di Stato in Italia, con importanti conseguenze sul sistema scolastico pubblico, come l'istituzione dell'insegnamento della religione cattolica, già presente dal 1923 e tuttora esistente seppure con modalità diverse.
Alla luce di tali accordi, il Costituente decise di rendere norma fondamentale dello Stato italiano il riconoscimento della Chiesa cattolica quale entità indipendente e sovrana. Essa viene posta sullo stesso piano dello Stato italiano: hanno pari poteri, ciascuno nel proprio ordine.
Proprio questo, tuttavia, risulta essere un concetto assai vago, non possedendo nessuna precisa definizione giuridica. L'ordine della Chiesa per alcuni deve essere interpretato nel senso della dimensione spirituale entro la quale la Chiesa godrebbe di assoluta indipendenza e sovranità. Secondo altri (e propendo per questa tesi) l'ordine della Chiesa afferisce anche alla dimensione temporale entro la quale essa dispone di potere, avendo un territorio (lo Stato Città del Vaticano), norme proprie (il diritto canonico), un apparato burocratico, una popolazione (seppure esigua) e una dignità nel diritto internazionale.
Dunque, l'articolo 7 della Costituzione sancisce la compresenza nel territorio italiano di un altro Stato avente analoghi poteri politici nell'ambito della propria dimensione.
E i rapporti tra questi vicini venivano regolati dai Patti Lateranensi. Essi furono, dunque, riconosciuti costituzionalmente nell'articolo 7, con la conseguenza che lo Stato non avrebbe potuto denunciarli unilateralmente come nel caso di qualsiasi altro trattato internazionale, senza aver prima modificato la Costituzione. Qualsiasi modifica dei Patti, inoltre, sarebbe potuta avvenire di mutuo accordo tra lo Stato e la Santa Sede. La revisione dei Patti, tuttavia, non avrebbe richiesto un procedimento di revisione costituzionale.
L'articolo 7, infatti, non ha inteso parificare il contenuto dei Patti alle norme costituzionali, ma soltanto costituzionalizzare il principio concordatario, con la conseguenza che essi, per il tramite della legge di esecuzione, avrebbero dovuto ritenersi soggetti al giudizio di compatibilità con i principi supremi dell'ordinamento da parte della Corte costituzionale.
Il Concordato (ma non il Trattato) fu rivisto, dopo lunghissime e difficili trattative, nel 1984, fondamentalmente per rimuovere la clausola riguardante la religione di Stato della Chiesa cattolica in Italia. La revisione che portò al nuovo Concordato venne firmata a Villa Madama, a Roma, il 18 febbraio dall'allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, per lo Stato italiano, e dal cardinale Agostino Casaroli, in rappresentanza della Santa Sede. Il nuovo Concordato stabilì che il clero cattolico venisse finanziato da una frazione del gettito totale IRPEF, attraverso il meccanismo noto come otto per mille e che la nomina dei vescovi non richiedesse più l'approvazione del governo italiano. Inoltre, per quanto riguarda la celebrazione del matrimonio, si stabilirono le clausole da rispettare perché un matrimonio celebrato secondo il rito cattolico possa essere trascritto dall'ufficiale di stato civile e produrre gli effetti riconosciuti dall'ordinamento giuridico italiano oltre a porre delle limitazioni al riconoscimento in Italia delle sentenze di nullità matrimoniale pronunciate dai tribunali della Chiesa che prima avveniva in modo automatico. Fu anche stabilito che l'ora di religione cattolica nelle scuole diventasse da obbligatoria a facoltativa, scelta che deve essere effettuata e comunicata all'atto dell'iscrizione all'anno scolastico successivo.

mercoledì 12 gennaio 2011

ATTRIBUZIONE DI UN NOME TRADIZIONALMENTE MASCHILE AD UNA BAMBINA: QUESTIONE GIURIDICA ANALIZZATA DA UN TRIBUNALE


La presente questione può certamente apparire di scarso rilievo pratico per la maggior parte delle persone ed in particolare per i lettori di questo blog, tuttavia, la stessa ha suscitato nello scrivente una particolare curiosità.
Mamma e papà hanno attribuito alla propria bambina il nome di Andrea.
In Italia questo nome è storicamente attribuito alle persone di sesso maschile. Il motivo è piuttosto semplice: Andrea deriva dal greco ἀνήρ (anēr), che indica l'uomo con riferimento alla sua mascolinità, in quanto contrapposto alla donna. Dunque, si tratta per antomasia di un appellativo maschile.
In altre lingue, invece, (in particolare l'inglese, il tedesco e lo spagnolo) il nome Andrea è usato prevalentemente o esclusivamente al femminile, laddove il maschile è Andrew, Andreas o Andrés.
Per tale ragione i suddetti genitori (esterofili) hanno scelto di attribuire alla propria bambina un nome che (non in Italia ma) in altri stati è comunemente attribuito alle femminucce.
L’Ufficiale dello Stato civile ha rilevato il contrasto del prenome con l’art. 35 d.P.R. 396/2000 (il quale recita "il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso e può essere composto da uno o da più elementi onomastici, anche separati, non superiori a tre") e con la circolare del Ministero dell’Interno dell’1 giugno 2007 n. 27 (relativa proprio al nome Andrea che viene riconosciuto come nome maschile) cosicché, pur registrando l’atto di nascita con l’onomastico femminile assegnato, ha avvertito i genitori della possibilità di una rettifica in sede giudiziale in quanto, secondo la circolare de qua, il nome Andrea poteva essere attribuito ad una donna solo come secondo nome e, quindi, se preceduto da un onomastico femminile.
L’Ufficiale dello Stato civile ha, quindi, presentato apposito rapporto alla Procura della Repubblica ed il Procuratore della Repubblica, ricevuto il rapporto, ha presentato ricorso per la rettifica del nome.
Il Tribunale di Varese ha, dunque emanato un
decreto col quale ha ritenuto giusto rettificare il nome della bambina, anteponendo il nome Sara al nome Andrea.
Tale decisione è stata motivata seguendo questo ordine di idee.
Innanzitutto il Giudice ha sottolineato che i genitori non hanno un diritto potestativo alla attribuzione al minore del nome che desiderano: il diritto al nome, infatti, è un diritto soggettivo incomprimibile della persona che lo porta, la quale, tuttavia, al momento della nascita non è in grado di sceglierlo ed, allora, sono i suoi rappresentanti legali ad indicarlo ma nell’esercizio di un potere-dovere proprio di un munus quale la potestà genitoriale (v. art. 7, comma I, Conv. diritti del fanciullo, New York 1996). In tal senso si pronuncia in modo autorevole
la Dottrina là dove precisa che la scelta del nome afferisce “ad un munus e deve essere esercitata nell’interesse del figlio che, grazie al nome attribuitogli, acquisterà un simbolo dell’identità personale, anzi il simbolo per eccellenza dell’identità personale nei rapporti sociali”.
In tale prospettiva si giustifica l’intervento dello Stato, in sede di rettificazione, ove la scelta dei genitori non corrisponda all’interesse del minore ed, anzi, sia idonea ad arrecargli pregiudizio.
Ai sensi dell’art. 35 d.P.R. 396/2000, “il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso”, mentre l’art. 34, comma I, del medesimo decreto, vieta l’assegnazione di “nomi ridicoli o vergognosi”. Dal combinato disposto delle suaccennate disposizioni, emerge chiaramente il divieto di attribuire ad un bambino di sesso maschile un nome da donna o ad una bambina di sesso femminile un nome da uomo. Ciò si tradurrebbe, infatti, nella violazione di entrambe le norme, posto che, in tali casi, l’identità della persona verrebbe esposta alla derisione altrui.
Il nome Andrea deriva dal greco «ἀνήρ» che indica l'uomo con riferimento alla sua mascolinità; ed, infatti, lo si considera anche un derivato di «ἀνδρεία», termine che rievoca la virilità. In Italia, Andrea è, infatti, un nome proprio di persona maschile (così come in Albania).
La circolare del Min. dell’interno dell’1 giugno 2007 avverte che il nome Andrea, in Italia, ha valenza maschile essendo “Andreina” la versione femminile. Il testo della circolare, dunque, continua affermando che “anche nel caso in cui i genitori richiedano la registrazione del figlio/a con un nome che, nella tradizione italiana, non corrisponde al sesso del minore, l’ufficiale dello stato civile (…) dovrà procedere alla registrazione ma dovrà avvertire i genitori che, a seguito della segnalazione del caso al Procuratore della Repubblica, come previsto dalla legge, è possibile che si instauri un giudizio di rettificazione che potrebbe portare, anche con tempi lunghi, alla modifica del nome prescelto”. La circolare ribadisce come nulla osti a che un nome tradizionalmente maschile, es. Andrea, possa essere imposto ad una bambina purché dopo un elemento onomastico chiaramente femminile (es. Francesca Andrea).
Per tale ragione, il Giudice, seguendo le indicazioni ministeriali, ha ritenuto di rettificare il nome da Andrea SARA in SARA Andrea, essendo la minore cittadina italiana e non essendo l’onomastico assegnato come primo (Andrea) a valenza e connotazione femminile in Italia.

martedì 11 gennaio 2011

PROCEDIMENTO DI SEPARAZIONE PERSONALE E CONIUGE IRREPERIBILE


Il procedimento di separazione può essere introdotto con una duplice modalità: attraverso, cioè 1) la domanda congiunta da parte di entrambi i coniugi (cosiddetta separazione consensuale, art. 711 c.p.c.) oppure 2) la domanda formulata da uno solo di essi (separazione giudiziale, art. 706 e seguenti c.p.c.).
In caso di separazione giudiziale, la domanda si propone con un ricorso (diretto al Giudice) che deve  contenere l'esposizione dei fatti sui quali la domanda stessa è fondata (art. 706 1° comma).
Esaminata la domanda, riscontrati i presupposti, il Presidente del Tribunale, nei cinque giorni successivi al deposito in cancelleria del ricorso, fissa con decreto la data dell'udienza di comparizione dei coniugi davanti a sè e fissa il termine entro il quale deve avvenire la notificazione (a cura del coniuge ricorrente e nei confronti del coniuge convenuto) del ricorso e del decreto stesso (art. 706 3° comma).
Due domande si pongono, però, nel caso in cui uno dei due coniugi risulti irreperibile: a quale Giudice spetta la competenza? E il procedimento di separazione può avere luogo in assenza di uno dei due coniugi?
Alla prima domanda risponde direttamente l'art. 706 2° comma c.p.c. il quale afferma che "qualora il coniuge convenuto sia residente all'estero o risulti irreperibile la domanda si propone al Tribunale del luogo di residenza o di domicilio del ricorrente".
Dunque, la competenza spetta al Tribunale del luogo in cui colui che introduce il procedimento risiede.
Quanto alla seconda domanda, la quale ovviamente comporta una risposta positiva (implicita anche leggendo il suddetto comma dell'art. 706) occorre porre l'attenzione a quanto prevede il codice di procedura civile relativamente all'ordinario giudizio di cognizione.
In particolare, si veda dapprima la normativa riguardante la notificazione: l'art. 140 c.p.c. prevede che "se non è possibile eseguire la consegna per irreperibilità, l'ufficiale giudiziario deposita la copia nella casa comunale dove la notificazione deve eseguirsi, affigge avviso di deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell'abitazione del destinatario e gliene dà notizia per raccomandata con avviso di ricevimento"
Inoltre, l'art. 143 c.p.c. prevede che "se non sono conosciuti la residenza, la dimora o il domicilio del destinatario, l'ufficiale giudiziario esegue la notificazione mediante deposito di copia dell'atto nella casa comunale dell'ultima residenza o, se questa è ignota, in quella del luogo di nascita del destinatario".
Perciò, nel nostro caso, qualora un coniuge proponga il ricorso al Giudice per introdurre un procedimento di separazione e il Tribunale disponga con decreto la fissazione dell'udienza di comparizione, il coniuge ricorrente, di fronte all'irreperibilità dell'altro coniuge, adempierà al proprio obbligo notificando secondo le forme prescritte dagli articoli precedenti.
In secondo luogo si veda la normativa riguardante il procedimento contumaciale: l'art. 709 c.p.c. rimanda agli artt. 166 e 167 c.p.c. Alla stregua degli stessi, il coniuge convenuto ha un termine per la costituzione in giudizio, trascorso il quale incorre nelle decadenze previste per qualsiasi procedimento ordinario di cognizione. Se il coniuge convenuto non si costituisce neppure all'udienza di comparizione dinanzi al Presidente del Tribunale viene dichiarato contumace ex art. 171 3° comma c.p.c.
Dunque, in tale ultimo caso, il procedimento ha comunque inizio, prosegue e giunge alla sua naturale conclusione, portando ad una sentenza che sancisce la separazione.