lunedì 29 novembre 2010

ASSEGNO DI MANTENIMENTO AL FIGLIO MAGGIORENNE


Il genitore, separato o divorziato, a cui il figlio sia stato affidato durante la minore età, pur dopo che il figlio (non ancora autosufficiente) sia divenuto maggiorenne, continua a, in assenza di un'autonoma richiesta da parte di quest'ultimo, ad essere legittimato "iure proprio" (ossia in virtù di un autonomo diritto proprio del genitore affidatario) ad ottenere dall'altro genitore il pagamento dell'assegno per il mantenimento del figlio, sempre che tra il genitore già affidatario e il figlio persista il rapporto di coabitazione.
Con la maggiore età il diritto al percepimento dell'assegno di mantenimento del figlio (statuito con il provvedimento che dichiara la separazione o il divorzio) sale, dunque, in capo a due soggetti e non più a uno solo: il genitore affidatario in quanto convivente e il figlio maggiorenne stesso.
Vediamo le ragioni di tale solidarietà attiva
Si veda la norma di cui all'art. 155 quinques c.c.: essa dispone che "il giudice può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamenti il pagamento di un assegno periodico; tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all'avente diritto".
Dunque, è chiaro che il figlio maggiorenne ha un diritto autonomo di percepire un assegno di mantenimento e, per tale ragione, potrebbe azionarlo direttamente nei confronti del genitore inadempiente.
Tuttavia, qualora la separazione sia intervenuta in un periodo antecedente alla maggiore età del figlio e sia stato stabilito in favore del genitore affidatario un assegno di mantenimento versato dall'altro genitore, il genitore convivente conserva il diritto di continuare a percepire l'assegno versato in favore del figlio.
La stessa Corte di Cassazione ha più volte spiegato che il genitore affidatario, il quale continui a provvedere direttamente ed integralmente al mantenimento dei figli divenuti maggiorenni e non ancora economicamente autosufficienti, resta legittimato non solo ad ottenere "iure proprio" (e non già "capite filiorum") il rimborso di quanto da lui anticipato a titolo di contributo dovuto dall'altro genitore ma anche a pretendere detto contributo per il mantenimento futuro dei figli stessi.
La legittimazione del genitore concorre, peraltro, con quella del figlio, la quale trova il suo fondamento nella titolarità del diritto al mantenimento ed i rapporti tra le due legittimazioni si risolvono in base ai principi della solidarietà attiva, applicabili in via analogica.

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE CHE FINGE DI AVERE SUBITO PERCOSSE DAL DATORE DI LAVORO


La Corte di Cassazione con la sentenza 29 novembre 2010 n. 24138 ha dichiarato legittimo il licenziamento disciplinare della lavoratrice che, dopo essere stata più volte invitata da un superiore a riprendere l'attività, viene presa dallo stesso per un braccio e finge di aver subito percosse tali da denunciare un infortunio sul lavoro.
La Corte ha respinto il ricorso di un'operaia che, dopo essere stata presa per un braccio, ha cominciato a urlare chiamando al telefono la madre e la sorella per farsi portare al pronto soccorso dove ha denunciato l'imprenditore per percosse e aperto un infortunio all'Inail. La Cassazione, pur ritenendo sbagliato l'atteggiamento del datore di lavoro, ha ritenuto che non sussistessero le percosse e l'infortunio, con la conseguenza che il recesso dell'imprenditore si doveva considerare legittimo.

mercoledì 24 novembre 2010

LA COSTITUZIONE ITALIANA: LA PIU' AFFASCINANTE DELLE LETTURE - ARTICOLO 3


Costituzione della Repubblica italiana, articolo 3: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".
Questo è l'articolo cardine attorno al quale è stata predisposta la nostra Carta Costituzionale. Si tratta di una norma illuminata, una pietra miliare dell'ordinamento italiano e un faro per tutti i paesi democratici e liberi.
Pare evidente il richiamo a tutti i principi illuministici, quelli che alla fine del diciottesimo secolo portarono alla Rivoluzione Americana prima e a quella Francese immediatamente dopo. Quando leggo o ascolto le parole dell'articolo tre della Nostra Costituzione, mi riesce inevitabile provare una sorta di commozione mista ad orgoglio e a ricnoscenza per i nostri predecessori (di ogni razza e nazionalità) morti per l'affermazione di questi principi. 
Le parole dell'articolo tre rimandano la mia mente a grandi statisti di altri paesi come Thomas Jefferson ("riteniamo che alcune verità siano di per sé evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali; che dal loro Creatore sono stati dotati di alcuni diritti inalienabili; che fra questi ci siano la vita, la libertà e la ricerca della felicità"), a documenti fondamentali come la  Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789 (testo elaborato a seguito della Rivoluzione Francese) o la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, siglata a New York nel 1948, ma penso soprattutto ai nostri grandi patrioti ed in particolare ai partigiani che hanno combattuto e hanno dato la vita per permettere ai propri figli di vivere in uno Stato nel quale non vi fosse alcuna differenza tra uomo e donna, tra bianco e nero, tra cristiano e musulmano, tra ricco e povero.
E dunque, tutti i cittadini italiani hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso (donna, uomo, transessuale, ermafrodito: per la legge nessuna di queste condizione è motivo di discrimine): tutti dispongono dei medesimi diritti e a tutti sono richiesti i medesimi doveri. Neppure la razza può essere motivo di discriminazione: caucasico, africano, asiatico, indiano e così via, non fa alcuna differenza per la legge. Ogni cittadino ha, poi, il diritto di potersi esprimere con la lingua insegnatagli dai propri genitori senza che ciò costituisca un pregiudizio. Ogni cittadino è libero di professare qualsiasi fede religiosa o di essere ateo senza che lo Stato possa trarne conseguenze pregiudizievoli. Tutti i cittadini hanno il diritto di possedere e manifestare liberamente le proprie opinioni politiche. Infine, tutti i cittadini sono uguali dinanzi alla legge senza distinzione di condizioni personali (sano, malato, disabile ecc. non fa alcuna differenza agli occhi della legge) e sociali (il ricco e il povero hanno i medesimi diritti).
Questi principi, meravigliosi ma che ricalcavano dichiarazioni precedenti, vengono portati nella Nostra Costituzione ad un livello superiore grazie al secondo comma dell'articolo tre, la vera grande innovazione (a livello mondiale) apportata in tema di diritti civili dalla Nostra Carta Costituzionale.
Infatti, la Costituzione non si limita a prevedere, come si suol dire "sulla carta", l'uguaglianza di tutti i cittadini ma impone allo Stato di adoperarsi materialmente per far sì che i suddetti principi trovino una puntuale e perfetta attuazione nella vita del Paese.
E' compito della Repubblica, infatti, rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini. E' il cosiddetto principio delle "pari opportunità": ad esempio un ragazzo capace ma impossibilitato a proseguire gli studi per difficoltà economiche deve essere messo dallo Stato nella condizione di potere studiare e di raggiungere i propri obiettivi; ad esempio una ragazza disabile deve potere avere libero accesso ai locali pubblici e ai mezzi pubblici e deve potere avere le stesse opportunità di lavoro di una ragazza sana.
Si parla, al riguardo di "uguaglianza sostanziale" e per uno Stato lungimirante ed illuminato questo principio assolve ad una duplice finalità: da un lato trasforma in pratica una "uguaglianza puramente formale" tra tutti i cittadini e, dall'altro, consente a se stesso di disporre di notevoli risorse umane che possono contribuire con lo studio, il lavoro e la ricerca a far progredire e crescere il Paese stesso.
A buona ragione, infatti, il secondo comma dell'articolo tre sottolinea il fatto che la "uguaglianza sostanziale" di tutti i cittadini consente non solo il pieno sviluppo della persona umana ma consente, altresì, che tutti i cittadini possano rendersi utili per l'organizzazione della vita politica e sociale del Paese.

martedì 23 novembre 2010

SCRIVERE "ENTRO E NON OLTRE" NON E' SUFFICIENTE PER CONSIDERARE ESSENZIALE UN TERMINE


Il termine, contenuto all’interno di un contratto preliminare, “entro e non oltre” il quale le parti convengono la stipula del definitivo, non può essere considerato, di per sé, “essenziale”, trattandosi solo di uno degli elementi da considerare al fine di stabilire se i contraenti abbiano voluto assegnare una decisiva valenza a tale data.
E' quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la
sentenza 25 ottobre 2010, n. 21838.
Innanzitutto è bene ricordare cosa dispone l'art. 1457 c.c.: "se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell'interesse dell'altra, questa [...] se vuole esigerne l'esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all'altra parte entro tre giorni. In mancanza, il contratto s'intende risoluto di diritto [...]".
Dunque, per termine essenziale, ai sensi dell'art. 1457 c.c. si intende quel termine superato il quale la prestazione sarebbe inutile per il creditore. La mancata esecuzione della prestazione comporta automaticamente la risoluzione del contratto. La legge tiene comunque conto del fatto che il creditore possa esigere ugualmente la prestazione, anche se ormai tardiva
Ebbene, secondo la Suprema Corte "il termine per l’adempimento può essere ritenuto essenziale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1457 c.c., solo quando, all’esito di indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, da condursi alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e, soprattutto, della natura e dell’oggetto del contratto, risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di ritenere perduta l’utilità economica del contratto con l’inutile decorso del termine medesimo”.
Tale volontà, continuano gli ermellini, “non può desumersi solo dall’uso dell’espressione “entro e non oltre” quando non risulti dall’oggetto del negozio o da specifiche indicazioni delle parti che queste hanno inteso considerare perduta l’utilità prefissasi nel caso di conclusione del negozio stesso oltre la data considerata”.

lunedì 22 novembre 2010

LA CORTE DI CASSAZIONE SULL'ASSEGNO DI DIVORZIO


La Corte di Cassazione con la sentenza 19 novembre 2010 n. 23508 ha affermato che i beni pervenuti per successione a uno dei due coniugi dopo la separazione possono incidere sull'assegno di mantenimento. Tale affermazione pare in netto contrasto (ma solo ad una lettura superficiale) con la giurisprudenza costante secondo la quale l'acquisizione di beni per via successoria dopo la cessazione della convivenza non dovrebbe affatto influire nella valutazione del tenore di vita tenuto dalla famiglia in costanza di matrimonio e, dunque, nella determinazione dell'assegno divorzile.
In realtà la Corte analizza la questione sotto un duplice profilo, conformemente alla lettera dell'art. 5 della legge 898/1970: questa norma dispone che "con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civile del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per il coniuge di somministrare mezzi periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive".
L'assegno di divorzio deve essere determinato non solo conformemente al tenore di vita tenuto dalla famiglia in costanza di matrimonio (e sotto questo profilo, come è ovvio, una intervenuta successione ereditaria non rileva) ma anche (ed è questo il secondo profilo che conduce la Cassazione ha fornire la sentenza succitata) in relazione alle attuali condizioni economiche dei due (ormai ex) coniugi: sotto questo profilo, una successione di beni che accresca il reddito dell'uno o dell'altra può essere valutato nella determinazione dell'assegno.
La Suprema Corte ha, infatti, chiarito che i beni in questione debbono essere presi in considerazione nella valutazione della capacità economica del coniuge.

giovedì 18 novembre 2010

LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE DURANTE IL PERIODO DI PROVA


La Corte di Cassazione con la   sentenza 17 novembre 2010 n. 23224   ha stabilito che il lavoratore in prova può essere licenziato senza alcuna motivazione. Secondo i giudici di legittimità, infatti, il rapporto di lavoro subordinato costituito con patto di prova è sottratto, per il periodo massimo di sei mesi, alla disciplina dei licenziamenti individuali, ed è caratterizzato dal potere di recesso del datore di lavoro, la cui discrezionalità si esplica senza obbligo di fornire al lavoratore alcuna motivazione, neppure in caso di contestazione, sulla valutazione delle capacità e del comportamento professionale del dipendente stesso.
Al lavoratore, secondo la Corte, rimane una sola possibilità per opporsi legittimamente al licenziamento: dimostrare sia l'avvenuto positivo superamento del periodo di prova sia il fatto che il licenziamento sarebbe avvenuto per un motivo estraneo alla suddetta prova.

LA COSTITUZIONE ITALIANA: LA PIU' AFFASCINANTE DELLE LETTURE - ARTICOLO 2


Costituzione della Repubblica italiana, articolo 2: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle forme sociali ove sisvolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale".
L'Italia riconosce, ossia ne attesta la validità giuridica, e garantisce, ossia si impegna a porre in essere tutte le tutele legalmente possibili nei confronti dei cosiddetti diritti inviolabili dell'uomo. Si badi bene che la Carta Costituzionale non parla di diritti dei cittadini ma di diritti dell'uomo: ad ogni essere umano, di qualunque razza, religione, nazionalità e così via devono essere garantiti dei diritti fondamentali.
E quali sono questi diritti inviolabili garantiti per ogni uomo? Alcuni di essi sono presenti nella Costituzione stessa: si pensi alla libertà personale (art. 13 Cost.), all'inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.), alla libertà e alla segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione (art. 15 Cost.), alla libertà di manifestazione (art. 17 Cost.) e di associazione (art. 18 Cost.), alla libertà di culto (art. 19 Cost.), alla libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), al diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e al diritto di difesa nel processo (art. 24 Cost.), al diritto ad essere famiglia, madre, padre, infante e giovane (art. 31 Cost.), alla salute (art. 32 Cost.), all'istruzione e alla cultura (art. 33 e 34 Cost.), al diritto di lavorare (art. 35 Cost.) percependo una retribuzione dignitosa (art. 36 Cost.), al diritto di aderire ad organizzazioni sindacali (art. 39 Cost.), al diritto di iniziativa economica e di proprietà privata (art. 41 e 42 Cost.).
Altri diritti inviolabili che debbono essere riconosciuti e garantiti a norma dell'articolo 2 possono trovarsi all'interno di documenti sottoscritti dallo stato italiano come, ad esempio, la
Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (ONU, 10 dicembre 1948). All'interno di questo documento si trovano, tra gli altri, anche il diritto all'uguaglianza senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione (diritto che testualmente la nostra Costituzione, all'art. 3, riserva ai soli cittadini ma che pare ovvio e doveroso estendere ad ogni uomo), il diritto alla vita, il diritto al riposo e allo svago, il diritto ad una sufficiente alimentazione.
Ebbene, in base all'articolo 2 della nostra Costituzione tutti i suddetti diritti debbono essere garantiti dalla Repubblica ad ogni uomo e non solo ai cittadini italiani. E questi diritti investono sia la sfera privata (ad esempio la libertà personale) sia la sfera sociale dell'uomo (ad esempio il diritto di associazione).
D'altro canto, l'Italia richiede l'adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. E' richiesto ad ogni uomo l'adempimento di doveri quali la contribuzione alla vita politica del paese e alla difesa della patria e dei valori fondamentali della stessa (doveri di solidarietà politica), l'adempimento di doveri quali la contribuzione economica al benessere del paese attraverso il lavoro e la corresponsione dei tributi imposti per legge (doveri di solidarietà economica) e l'adempimento di doveri quali la contribuzione al benessere sociale del paese attraverso forme di volontariato e cura nei confronti del prossimo (doveri di solidarietà sociale).

giovedì 11 novembre 2010

LA COSTITUZIONE ITALIANA: LA PIU' AFFASCINANTE DELLE LETTURE - ARTICOLO 1


Costituzione della Repubblica Italiana, articolo 1: "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".
L'Italia è innanzitutto una Repubblica: questa espressione si riferisce alla cosiddetta forma di stato, ossia al rapporto che corre tra le autorità dotate di potestà di imperio e la società civile, nonchè all'insieme dei principi e dei valori a cui lo stato ispira la sua azione. La parola Repubblica deriva dal latino (res publica, cioè "cosa pubblica") ed indica uno stato che pone al centro dell'attenzione il cittadino: infatti, se lo stato è una Repubblica, ossia qualcosa che appartiene a tutti, ne discende, come logica conseguenza, che tutti i cittadini siano considerati uguali dinanzi alla legge e possiedano gli stessi diritti. In una Monarchia, per esempio, ciò non è così: il Re è considerato superiore ai cittadini.
Dunque, l'Italia (in quanto Repubblica) appartiene in egual modo a tutti gli Italiani. Detto ciò, la Costituzione va oltre, determinando la forma di governo, ossia stabilendo a chi effettivamente spetti il compito di determinare le scelte politiche dello stato.
La Carta Costituzionale ci dice che l'Italia è una Democrazia: questa volta la parola ha un'origine greca (demos-popolo, cratos-potere) e sta ad indicare uno stato all'interno del quale le decisioni sono prese dalla collettività. Dunque, immaginando l'Italia come una torta fatta da 60 milioni di fette, ciascun cittadino possiede la propria fetta ed ha il potere proporzionale di decidere in merito alle sorti del paese.
Il valore cardine sul quale è poggiato il nostro stato è il Lavoro: ogni cittadino ha il diritto-dovere di fornire il proprio contributo per la crescita collettiva del paese. A mio parere è un concetto fortemente cristiano (penso che la nostra Costituzione sia pregna dei migliori valori cristiani): nel Vangelo sono presenti innumerevoli racconti incentrati sul lavoro, sul dare il proprio contributo per il benessere collettivo (in primis) e privato.
Nel secondo capoverso, viene esplicitato il ruolo del popolo: la Sovranità (ossia, il potere di decidere e di agire) appartiene al popolo (come detto, è una Democrazia), il quale esercita il potere con forme ed entro limiti stabiliti dalla Costituzione. In sostanza la Carta vuole dirci che, pacifico il fatto che tutti i cittadini abbiano diritto di concorrere alle decisioni del paese, il modo con il quale esse sono di fatto assunte deve rispettare precise regole del gioco prestabilite. Si immagini una partita di calcio: tutti i giocatori in campo hanno pari diritti ma devono esplicarli secondo determinate regole, non possono, per esempio, usare le mani. Lo stesso principio vale per lo stato italiano. I cittadini possono far valere il proprio potere con gli strumenti messi a disposizione dalla Costituzione stessa: si pensi alle elezioni (con le quali i cittadini delegano un determinato numero di rappresentanti perchè adempiano alla funzione legislativa), al referendum (con il quale i cittadini esprimono la volontà di abrogare una legge esistente), all'iniziativa legislativa popolare (con la quale i cittadini formulano direttamente proposte di legge che debbono essere approvate dal parlamento).

lunedì 8 novembre 2010

DANNO DA INSIDIA STRADALE: FONDAMENTALE ACCERTARE IL NESSO DI CAUSALITA'


La Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del danno derivante da cosiddetta insidia stradale. E' la situazione che si crea allorquando, ad esempio, un pedone inciampa a causa di un avvallamento (non adeguatamente segnalato) della strada pubblica, riportando un danno fisico. Ebbene, al riguardo con la sentenza 6 ottobre 2010, n. 20757, la Suprema Corte ha stabilito che colui il quale intende far valere una responsabilità contrattuale o extracontrattuale della Pubblica Amministrazione deve dimostrare il nesso causale tra l'eventuale evento dannoso e l'insidia o trabocchetto, nascente da situazione di fatto, creatrici di un pericolo per l'utente della strada. Insomma, "in tema di danno cagionato da cose in custodia è indispensabile, per l'affermazione di responsabilità del custode, che sia accertata la sussistenza di un nesso di causalità tra la cosa ed il danno patito dal terzo, dovendo a tal fine, ricorrere la duplice condizione che il fatto costituisca un antecedente necessario dell'evento, nel senso che quest'ultimo rientri tra le conseguenze normali ed originarie di esso”.

venerdì 5 novembre 2010

LA MEDIAZIONE FAMILIARE: IL PARERE DELLA DOTTORESSA LUISA GATTO


La mediazione familiare è un tipo d’intervento volto alla riorganizzazione delle relazioni familiari e alla risoluzione o attenuazione dei conflitti in caso di separazione o di divorzio.
Il percorso di mediazione rappresenta una valida alternativa o complemento alla tradizionale via giudiziaria: il suo scopo è quello di consentire ai coniugi che scelgono di porre fine al proprio vincolo matrimoniale di raggiungere, in prima persona, degli accordi di separazione e d’essere artefici della riorganizzazione familiare che andrà a regolare la vita futura loro e dei loro figli.
Rivendicazioni, rancori, figli contesi e triangolati, sono questi gli elementi che caratterizzano spesso i rapporti tra coniugi che vivono una crisi da separazione. Questo tipo di servizio offerto alla famiglia in crisi si basa su di un presupposto essenziale, che lo differenzia da ogni altro tipo di intervento volto a risolvere le dispute: le persone, pur nel disordine emotivo/organizzativo che spesso accompagna una crisi coniugale, hanno la capacità di autodeterminarsi ed assumersi la responsabilità di decidere ciò che è meglio per loro, evitando di delegare ad un terzo, avvocato o giudice che sia, questo compito.
La mediazione, che raramente prevede la presenza dei figli (specialmente se piccoli) rappresenta anche il modo migliore per i minori di vedere tutelati i loro diritti, bisogni ed interessi: se, infatti, il mediatore non interviene mai in merito al contenuto degli accordi, sui quali soltanto i coniugi hanno diritto di parola (è la coppia in ogni caso che sceglie le problematiche da negoziare; è possibile quindi che essa senta il bisogno di portare in Mediazione solo alcuni dei temi che vengono tipicamente affrontati nell'ambito di una separazione) egli ha comunque il dovere di opporsi a quelle decisioni che con evidenza minaccino l'interesse dei bambini. Sono allora i figli, "i terzi assenti nel processo di mediazione", i beneficiari privilegiati di questo tipo di intervento.
La mediazione familiare si presenta allora come un aiuto concreto ai padri e alle madri che intendono ripensare in maniera intelligente e costruttiva alla riorganizzazione del ménage familiare, evidentemente destrutturato dalla crisi coniugale. In mediazione non ci si occupa del passato e dei motivi che hanno condotto la coppia alla decisione di separarsi, almeno che questi aspetti non servano effettivamente per costruire quel tavolo delle mediazioni che farà da base all'attività negoziale dei coniugi.
L'attenzione dei protagonisti si soffermerà soprattutto sui ruoli presenti e futuri e su tutti gli aspetti di gestione del nuovo assetto familiare. La mediazione familiare non è necessariamente rivolta alle coppie che hanno già deciso di separarsi: giacché servizio di aiuto in caso di conflittualità familiare, possono recarsi dal mediatore tutti coloro che vivono una situazione di conflitto in famiglia e che sentono il bisogno di trovare uno spazio neutro in cui confrontarsi per chiarire la propria posizione, le proprie idee, o ritrovare un proprio ruolo coniugale o genitoriale corroso dal tempo o da situazioni conflittuali. I coniugi in mediazione familiare sono stimolati a prendere in modo autonomo le proprie decisioni e ad essere responsabili del proprio futuro. Il presupposto di fondo è che nessuno meglio di loro sia in grado di prendere quelle decisioni che andranno a regolare ed organizzare la loro vita futura e quella degli altri membri del nucleo familiare. Il ricorso alla giustizia formale implica, invece, una posizione di delega passiva che limita lo spazio per l'esercizio della soggettività dei protagonisti della separazione.
La mediazione familiare mira a creare un setting specifico, uno spazio e un tempo "neutro" dove i coniugi abbiano la possibilità di "ripensarsi" come coppia, o come coppia che si separa ma che rimane unita nell'esercizio della funzione genitoriale. Il setting della Mediazione Familiare è specifico per una buona accoglienza e per favorire un clima di fiducia e parità tra i partner e tra questi e il mediatore. Tale ambiente facilita l'espressione delle emozioni e consente una positiva gestione della conflittualità, trasmettendo calma e serenità. L'organizzazione dello spazio ha, infatti, una funzione importante in quanto condiziona l'interazione tra gli individui: ad esempio, le stanze dove vengono effettuati i colloqui solitamente non prevedono la presenza di scrivanie, segnali di gerarchia, mentre le sedie vengono disposte a circolo, modalità che favorisce la comunicazione e l'interazione diretta. Attraverso un percorso strutturato e centrato sugli obiettivi, di negoziazione si giunge a degli accordi "ragionevoli e mutualmente soddisfacenti" su tutti gli aspetti inerenti al divorzio: modalità di affidamento dei figli, calendario delle visite per il genitore non affidatario, assegno di mantenimento, divisioni patrimoniali, spartizione dei beni ecc.
Luisa Gatto, psicologa (iscrizione all´albo N°03/10333)
Via Trieste 1- Lissone (MB)
Cell 3495295586